I numeri talvolta sono impietosi: 13 milioni di Sì, 19 milioni di No: 41% e 59%. Una severa (e meritata) lezione per chi ha avuto l’arroganza di voler stabilire da solo le regole del gioco democratico, facendo approvare con il voto di fiducia la nuova legge elettorale per la Camera dei deputati e poi promuovendo una revisione costituzionale grazie ad un premio di maggioranza giudicato incostituzionale dalla Consulta.
Analizzando la geografia del voto, si vede chiaramente che i riformatori hanno vinto soltanto nel cuore dell’Emilia Romagna e della Toscana (cioè nelle roccaforti del Partito Democratico), oltre che con il voto degli italiani all’estero, che hanno dimostrato di non essere in sintonia con chi in Italia vive quotidianamente.
Gli elettori, dovendo scegliere tra la stabilità della Costituzione e quella del governo, hanno saggiamente scelto la prima. Dopo la forzatura del centrodestra nel 2006 è stata bocciata sonoramente anche quella effettuata dall’attuale maggioranza di centrosinistra. Il confronto dei dati dell’affluenza nei tre referendum costituzionali finora svolti è particolarmente significativo: nel 2001 per la riforma limitata del Titolo V andarono alle urne il 34% degli elettori, nel 2006 per la più ampia revisione proposta l’affluenza arrivò al 54% e questa volta per le svariate materie del quesito referendario è stato superato il 65%. Sembra che tra gli italiani in questi anni sia cresciuta la consapevolezza dell’importanza della posta in gioco: le regole comuni che a tutti appartengono.
Certamente la rilevanza del voto è stata accresciuta anche dallo stretto legame – voluto da Matteo Renzi – tra esito del referendum e continuità del governo. Ma è evidente che tra le disomogenee motivazioni del No, c’è anche un legame identitario con la Carta che i nostri nonni ci hanno trasmesso come testimonianza e indicazione per il futuro. Questo voto afferma con chiarezza che gli aggiornamenti della Costituzione sono possibili, ma soltanto se si tratta di interventi di ordinaria manutenzione e non di ampia ristrutturazione. E soprattutto che tali modifiche devono essere effettuate con la condivisione delle diverse componenti politiche, sociali e culturali del paese.
Pertanto ci auguriamo che mai più si proceda a colpi di maggioranza, per altro rappresentativa soltanto di una minoranza degli elettori, grazie ai premi assegnati dalle leggi elettorali più recenti.
Inoltre, speriamo che la lezione possa servire ad ogni futuro governo, che – in qualità di potere esecutivo – dovrà svolgere la propria vera funzione: attuare l’indirizzo politico della maggioranza parlamentare, senza immischiarsi nella materia costituzionale.
Guardando avanti in tempi brevi si pone un problema. L’attuale legge elettorale per la Camera (iper maggioritaria) è profondamente diversa da quella per il Senato (proporzionale). Se si andasse al voto oggi, avremmo sicuramente maggioranza diverse nei due rami del Parlamento, con una situazione di stallo legislativo ed istituzionale. Tutto ciò a causa della presunzione di Matteo Renzi e della sua maggioranza, che ha approvato soltanto la legge elettorale della Camera, dando per scontato che la revisione costituzionale sarebbe stata confermata e che di conseguenza i senatori sarebbero stati eletti dai consigli regionali. Di conseguenza, siamo al paradosso che chi ha proclamato per tutta la campagna referendaria la necessità della stabilità e della semplificazione, ci ha condotti irresponsabilmente in una situazione di complessa e probabile instabilità.
Confidiamo nella saggezza del Presidente della Repubblica affinché intervenga nei confronti dell’attuale Parlamento per porre rimedio a questa grave lacuna.
Infine possiamo dire che questo voto ristabilisce un più corretto ordine costituzionale tra le istituzioni del paese, con una drastica riduzione dell’ipertrofia governativa. A chi sta ai vertici ogni tanto un bagno di umiltà non può che fare bene, anche soltanto per ricordare che la politica è al servizio del bene comune (e non il contrario).