Talib Kweli, uno dei più apprezzati artisti afro-americani, un vero mito del rap, forse quello che esprime l’hip hop nella forma più colta e impegnata, in questi giorni ha pagato il prezzo del suo sostegno alle battaglie contro la violazione dei diritti umani in Palestina.
Talib nasce, in senso anagrafico, contemporaneamente all’hip hop, genere che finirà per scegliere come forma di espressione del suo sentire artistico che, già da giovanissimo, si palesa con poesie e altre creazioni letterarie dalle quali, si dice, già emergesse quel senso di rivolta contro l’ingiustizia che poi prenderà forma nel suo rap.
Ma Talib è una “black star”, e quel “black” ha un significato profondo. Inoltre il suo nome e cognome sembra quasi che gli traccino la via: insieme significano qualcosa come “cercatore di conoscenza o di verità” e quindi non stupisce che nella galassia di artisti maggiori e minori che adattano la loro arte alla committenza, Talib Kweli sia una delle poche stelle che brillano seguendo un cammino diverso e non si confondono con le altre.
Così, nel 2014, annus orribilis per la Striscia di Gaza grazie alla cosiddetta azione “margine protettivo”, definizione data da Israele al massacro che in 51 giorni uccise circa 2.200 palestinesi di cui circa 500 bambini e ne ferì gravemente circa 11.000, in quell’anno Talib Kweli si rifiuta di tenere un concerto a Tel Aviv.
Questa black star ha saputo dire “no grazie, per voi non mi esibisco” proprio a Tel Aviv, la meta ambita da tanti musicisti e artisti in genere, sensibili più alle sirene del potere, del denaro, della visibilità che al rispetto dei diritti umani di cui, quando non costa niente, si riempiono comunque la bocca. Una Tel Aviv che solo due giorni fa ha visto il maestro Riccardo Muti offrire la sua indiscutibile bravura al criminale (criminale in quanto colpevole riconosciuto di numerosi crimini impuniti) Stato di Israele.
Muti ha subito il fascino delle lusinghe israeliane fino al punto di confondere tempi, politiche e luoghi e di rifarsi alle parole del grande Toscanini che nel 1936 offrì la sua musica in quell’angolo della Palestina mandataria come omaggio alla libertà da dittature e da fascismi di ogni tipo. Il maestro Muti, infatti, ha avuto la spudoratezza di dichiarare in contemporanea il suo apprezzamento per Israele e il suo “desiderio di pace e fratellanza tra tutti i popoli” ignorando, o forse semplicemente nascondendo in un angolo nero della sua coscienza, cosa realmente Israele faccia e abbia fatto finora contro il popolo palestinese e contro la legalità e il diritto umanitario internazionale.
Ma Riccardo Muti è una stella della galassia come tante altre. Chissà se al tempo di Toscanini avrebbe avuto il coraggio del vecchio maestro o, non essendo ancora condannato dalla Storia il fascismo, avrebbe più semplicemente offerto all’Italia del duce la sua magnifica direzione d’orchestra! Non possiamo saperlo, ma sappiamo che mentre lui suonava a Tel Aviv osannando il sionismo, da lui stesso chiamato “amore per Israele”, la black star che aveva detto no a Israele e che, chiamato ad esibirsi a Lipsia, nella Germania non più nazista, dieci giorni fa, ha visto cancellare il suo concerto nonostante già da molti giorni il botteghino avesse dichiarato sold out, perché le sue dichiarazioni a favore del popolo palestinese hanno convinto, o costretto, gli organizzatori ad annullare la serata.
La notizia non ha circolato molto, perché non sta bene mostrare tanto servilismo e quindi lo si tiene in penombra. Ma una lettera di solidarietà e di ringraziamento delle istituzioni culturali palestinesi a Talib Kweli firmata, tra gli altri, anche dal prestigioso conservatorio Edward Said, ha mostrato questa ennesima vergogna, questo prostrarsi al volere del sionismo che allunga i suoi artigli per ogni dove.
E così, in quella Germania che 80 anni fa perseguitava gli ebrei senza potere e senza protezione e che oggi osanna il potente e tutelato Stato di Israele, si annulla il concerto di chi si è schierato per i diritti del popolo palestinese e si restituiscono migliaia di biglietti, forse per non sentire un verso semplice e ironico che però potrebbe arrecare disturbo, quella strofetta che dice “Israele ha i carri armati, la Palestina ha il rap”. Forse è comunque troppo, anche il solo rap. E allora Lipsia si macchia ancora una volta, dopo tanti anni di riconquistata democrazia, dell’antico reato di impedire la libertà di espressione. La voce di Talib Kweli a Lipsia non può parlare.