Ogni volta che il Dalai Lama, il leader spirituale del buddismo tibetano, visita un paese, la Cina riprende puntualmente il governo che lo ospita. Lo scorso 16 ottobre è toccato al presidente slovacco Andrej Kiska essere “avvisato” da Pechino che il suo incontro con sua santità avrebbe “compromesso le basi politiche per le future relazioni tra Cina e Slovacchia”. Pochi giorni dopo le proteste dell’ambasciata cinese in Italia e quelle delle locali organizzazioni cinesi avevano investito il Comune di Milano, reo di aver conferito a Tenzin Gyatso la cittadinanza onoraria in qualità di “testimone di solidarietà nel mondo e come riconoscimento del suo impegno a favore del dialogo, della pace e del suo messaggio di tolleranza, teso all’affermazione dei valori di libertà, di nonviolenza e dei diritti umani”. Adesso è il turno della Mongolia, che il Dalai Lama ha visitato dal 18 al 21 novembre scorsi di ritorno da una visita in Giappone, dopo la perentoria quanto inutile richiesta di Pechino di cancellare la visita.
Anche se la Mongolia ha organizzato un incontro esclusivamente religioso, senza alcun risvolto politico ed istituzionale, quella del presidente Cahiagijn Ėlbėgdorž è stata una scelta coraggiosa, perché avviene in un momento in cui la Mongolia, che conta più di un milione di buddisti (circa il 53% della popolazione sopra i 15 anni), ma dipende molto a livello economico e commerciale dalla Cina, sta cercando di ottenere un importante pacchetto di aiuti da Pechino. Adesso, se alle parole seguiranno i fatti, rischia serie ripercussioni nelle relazioni commerciali con la Cina, visto che il governo cinese si era già opposto ad altre visite del Dalai Lama in Mongolia, chiudendo i confini nel 2002 e cancellando temporaneamente i voli “da e per” il paese di Ėlbėgdorž nel 2006.
Per il leader spirituale del buddismo che dal 1959 vive in esilio a Dharamsala nel nord dell’India, le continue proteste cinesi, ormai, sono un fatto normale. “Dal 1969 dico che il futuro è dai tibetani. Mi sono ritirato ufficialmente da tutte le attività e le responsabilità politiche” ha dichiarato il Dalai Lama. Una posizione ribadita in molte occasioni, ma sempre attuale. Per 400 anni il Dalai Lama è stato il capo sia spirituale che politico del Tibet, ma oggi “l’istituzione del Dalai Lama non è più così importante per il futuro politico del Tibet, tant’è che il nostro popolo sta facendo le elezioni”. Tuttavia, ha concluso con la sua consueta ironia, “sembra che il Dalai Lama sia sempre molto importante per i cinesi. Sono più preoccupati i cinesi per il Dalai Lama che il Dalai Lama stesso”. Dall’alto dei suoi 81 anni, Tenzin Gyatso è oggi una personalità rispettata a livello globale, con contatti non solo formali con molti leader mondiali e non è certo quel “separatista che si batte per l’indipendenza del Tibet dalla Cina” che Pechino dipinge ad ogni sua apparizione internazionale.
La lezione che ha tracciato in questi anni il leader spirituale del buddismo tibetano è ciò che lui chiama un “approccio di compromesso”, che ricerca solo “un’autonomia significativa” per il Tibet in quanto parte della Cina, tramite tutele per la lingua, la religione e la cultura. Ma i tibetani, i rappresentanti della diaspora tibetana e i tanti buddisti di questa parte di Asia sono pronti a raccogliere questa importante e delicata eredità politica? Forse anche per far fronte a questa nuova sfida, durante la sua visita in Mongolia, Tenzin Gyatso ha annunciato il passaggio del sistema d’istruzione buddista verso un modello più moderno. Presso il complesso sportivo Buyant Uhaa della capitale mongola Ulan Bator, il 20 novembre il Dalai Lama ha parlato di fronte a più di 12mila persone (la maggior parte composta da monaci) e ha annunciato che anche nei monasteri buddisti mongoli, “l’istruzione buddista sarà sempre più ampia e olistica”. Un cambiamento che avvicinerà il modello di istruzione a quello dei monasteri nepalesi ed indiani, “dove l’insegnamento di scienze, matematica e inglese sono requisiti fondamentali per un’istruzione più completa”.
Una sfida educativa che dimostra una volta ancora la modernità di questo XIV Lama, che se non si è fatto spaventare fino ad oggi dalla Cina e non sembra potersi far spaventare dagli Stati Uniti di Donald Trump. “Non sono preoccupato delle dichiarazioni fatte da Trump durante la campagna elettorale” ha dichiarato al termine della sua 4 giorni in Mongolia, aggiungendo che “sarò felice di incontrare Trump in futuro”. L’attuale Dalai Lama che ha descritto gli Stati Uniti come “la nazione leader del mondo libero”, immagina il suo futuro presidente impegnato a “lavorare assecondando la realtà”, magari proprio iniziando dalle deboli raccomandazioni formulate del vertice sul clima COP22 da poco conclusosi a Marrakesh. Perché Trump, il mondo, e anche tutti noi “dobbiamo incominciare a concentrarci sull’utilizzo di fonti rinnovabili di energia”. Il futuro è nostro, direbbe sua santità.