Ha ragione Roberto Saviano quando scrive: “Mi piace tranquillizzare gli italiani su un punto: se vincesse il no l’Italia non sprofonderebbe nel baratro e una riforma costituzionale sarà sempre possibile in futuro, come in caso di vittoria del sì non ci sarà alcuna deriva autoritaria. Non ci saranno accelerazione, progresso e risparmio in caso di vittoria del sì e non ci sarà lentezza e stallo in caso di vittoria del no. Questa riforma non è la resa dei conti, se non per chi ci ha messo la faccia, sbagliando, rendendo questo referendum uno spartiacque, ma non per il Paese, ma per se stesso”.
In questa campagna referendaria sembra prevalere la preoccupazione per che cosa accadrà dopo il 4 dicembre. La domanda che più ricorre è: se vincerà il NO, cadrà il governo? Dubbio comprensibile, ma non per questo meno sbagliato.
La prima domenica di dicembre gli elettori saranno chiamati a confermare la legge di revisione costituzionale approvata dal Parlamento oppure a respingerla, confermando la Costituzione vigente. Perché dovrebbe cadere il governo?
Tra l’altro il progetto di revisione presentato dal governo l’8 aprile del 2014 è in diversi punti diverso da quello approvato dal Parlamento e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 15 aprile 2016 e sul quale si tiene il referendum. Di conseguenza, nel caso di vittoria dei NO, ad essere respinta è la proposta del Parlamento. Perciò la domanda al limite dovrebbe essere riformulata: se il SI perdesse, la maggioranza dei Parlamentari si dimetterà, visto che il suo operato verrebbe sconfessato dagli elettori su un punto così rilevante come la legge costituzionale? Ovviamente, se venisse meno la maggioranza in Parlamento, anche il governo cadrebbe e si andrebbe necessariamente a nuove elezioni. Ma diversa sarebbe la causa dell’eventuale caduta.
Forse invece ha torto Roberto Saviano quando afferma: “Tutto il rumore che si sta facendo è un modo per occupare posizioni in quella che è una personalissima lotta per il raggiungimento di un personalissimo potere. Non mi saranno amici i signori del sì e non mi saranno amici i signori del no se dico che questo risiko per recuperare una percentuale minima di consenso è il peggior servizio che si sta facendo all’Italia. Un danno del quale non voglio essere complice. Non mi chiamate in sostegno, questo referendum è solo affar vostro, per questo referendum, io non ci sono”.
La Costituzione è di tutti. Pertanto, non si può dire che “questo referendum non mi riguarda” (titolo dell’articolo di Roberto Saviano pubblicato su L’Espresso). Va benissimo denunciare i giochi di potere e le strumentalizzazioni che stanno accompagnando la sfida elettorale, ma non ci si può astenere sulla Legge fondamentale che esprime il Patto di cittadinanza: bisogna decidere se la riforma costituzionale migliora o peggiora la Costituzione vigente. Se ci si chiama fuori, vuol dire che saranno gli altri a scegliere. Infatti nel referendum costituzionale non è previsto il quorum: decide chi vota. E il voto è una forma di “solidarietà politica” (art. 2 Costituzione), è una manifestazione – non l’unica – della partecipazione del cittadino elettore alla vita collettiva.
Don Luigi Ciotti sostiene da anni che “il primo testo antimafia è la Costituzione”. Anche per questa ragione è giusto – come fa Saviano – mettere in guardia i cittadini dai giochi di potere che utilizzano anche il referendum costituzionale per altri scopi. Ma proprio il referendum è uno degli strumenti di democrazia nelle mani del cittadino per contrastare gli eventuali abusi del potere. E la Costituzione è la legge che garantisce a tutti questa possibilità. Le regole del gioco sono più importanti della partita e quando sono messe in discussione non ci si può girare dall’altra parte. Nei fatti non è consentito a nessuno, nemmeno a Roberto Saviano, che sta testimoniando con la sua vita “il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi” (art. 54 Costituzione), abbandonare il terreno di gioco. Perciò invitiamo Saviano a ripensarci: in fondo la Costituzione siamo noi e non possiamo dimenticare o trascurare la nostra identità.