Il macho contro la donna di ghiaccio, il razzista, bugiardo e sessista contro la candidata delle lobby. Mancano pochi giorni alle elezioni presidenziali statunitensi e il mondo intero segue con una certa apprensione quella che da molti è stata definita la peggiore campagna presidenziale della storia degli Usa. Da un lato le politiche xenofobe e razziste di Trump, dall’altro quelle guerrafondaie e imperialiste della Clinton. Gli americani non hanno dubbi: “se va bene siamo rovinati!”
Se nel 2008 Obama incantava il mondo con una campagna elettorale incentrata sul tema della speranza nel cambiamento oggi, a otto anni di distanza, con buona parte di quelle speranze che sono state disattese e la promessa rivoluzione “green” che non è mai avvenuta, il clima è decisamente diverso. La domanda che con ogni probabilità affolla la mente degli elettori americani è: “ma quindi chi è il meno peggio?”
Mancano pochi giorni alle elezioni presidenziali statunitensi e in tv abbiamo da poco assistito a quello che i media d’oltreoceano non hanno esitato a definire “Il peggior dibattito presidenziale di sempre”, caratterizzato dall’assenza totale di contenuti e dalla rinuncia ad una qualsivoglia visione politica in favore delle punzecchiature e delle battutine spicce fra i due contendenti. Tre ore complessive di confronto in cui è andato in diretta il vuoto pneumatico più totale riempito qua e là da inutili slogan e frecciatine reciproche.
Trump e la Clinton sembrano incarnare due modi diversi di essere americani, entrambi profondamente inquietanti. Il primo è l’emblema dello statunitense macho e spaccone, misogino e xenofobo. Lontano dalla politica di mestiere, da molti è stato paragonato a Berlusconi e il parallelismo funziona: un ricchissimo imprenditore con la passione per lo show grottesco e la battuta facile e volgare, caratterizzato da un rapporto turbolento con la verità e capace di ammaliare il popolo a suon di slogan urlati. La definizione che Feltri dette a Berlusconi potrebbe calzare a pennello anche per The Donald: “è sincero solo quando mente”.
La seconda, data in vantaggio dai sondaggi, appare invece come una fredda e calcolatrice “donna delle lobby” legata mani e piedi al mondo della finanza, all’industria hi-tech, alla lobby militare industriale, con forti amicizie in Goldman Sachs. Un report della Federal Election Commission (riportato su Forbes) mostra che alla fine di dicembre 2015 circa 21,4 milioni di dollari dei fondi della campagna elettorale della Clinton provenivano da hedge fund, banche, compagnie di assicurazione e altre società di servizi finanziari. Di questi 21 milioni, circa la metà provengono da due magnati molto conosciuti: il miliardario George Soros, che ha partecipato con circa 8 milioni di dollari, e il finanziere Donald Sussman, che ne ha donati 2,5. In tutto la cassa proveniente dai donatori di Wall Street e altre società finanziarie raggiunge i 44,1 milioni di dollari. Altro piccolo dettaglio: pare che la mite Hillary volesse eliminare Julian Assange con un drone per lo scandalo del mail gate.
Per dirla altrimenti, scegliere fra Hillary Clinton e Donald Trump significa scegliere fra:
a) Un uomo che ha detto le seguenti cose:
“Chiudiamo le frontiere alle persone musulmane!”
“Dobbiamo costruire un enorme muro al confine col Messico per impedire l’accesso ai Messicani!”
“Il riscaldamento globale è una stronzata che deve essere fermata, il pianeta sta congelando, le temperature sono ai minimi storici”
“Il concetto di riscaldamento globale è stato inventato dai cinesi per distruggere l’industria americana”
“Quando sei un vip alle donne puoi fare tutto, puoi anche afferrarle per la figa”
b) Una donna che è stata finanziata dai seguenti soggetti:
Donald R. Mullen Jr, Co-Head of Global Credit, Goldman, Sachs & Co, con 150mila dollari; Marcia L. Goldman, filantropa e scrittrice, con 225mila dollari; John D. Goldman, filantropo con 225mila dollari; Roger C. Altman, presidente di Evercore Partners, con 250mila dollari, Phillip T. Ragon, fondatore di Intersystems Corporation, con 250mila dollari; Marc Nathanson, Mapleton Investments, con 250mila dollari; James Pugh, Real Estate Developer, Epoch Properties, con 250mila dollari; Barrett A. Toan con 250mila dollari; Paul Egerman, co-fondatore di eScription Inc, con 350mila dollari; Susie T. Buell con 400mila dollari; Kathleen McGrath, produttrice di First Tuesday Media, con 500mila dollari; J.J. Abrams, direttore, produttore e Ceo di Bad Robot, con 500mila dollari; Laure Woods, fondatrice e presidente di Bay Area Lyme Foundation con 750mila dollari; David E. Shaw, ricercatrice del D. E. Shaw Research con 750mila dollari; Pat Stryker, Bohemian, con 750mila dollari; Mark Heising, manager di Medley Partners con 750mila dollari; Stephen M. Silberstein, fondatore di Innovative Interfaces con 800mila dollari; Barbara F. Lee, fondatrice e presidente di Barbara Lee Foundation con 966.919 dollari; Steven Spielberg, regista e co-fondatore di Dreamworks Animation con 1 milione di dollari; Jeffrey Katzenberg, ceo di Dreamworks Animation con un milione di dollari; Herbert M. Sandler con un milione di dollari; Haim Saban, ceo di Saban Entertainment, con un milione di dollari e Cheryl Saban con un milione di dollari.
È evidente come né l’opzione “a” né la “b” siano particolarmente desiderabili.
Le differenze marcate fra i due candidati conducono a due politiche che, almeno stando alle aspettative, sarebbero anch’esse opposte. L’una, quella di Trump, chiusa e xenofoba, volta a “proteggere” il paese dall’invasione degli immigrati messicani e dei musulmani, ma d’altra parte piuttosto isolazionista, poco interessata agli aspetti della geopolitica internazionale, persino distensivista nel rapporto con la Russia (non è un mistero che fra Trump e Putin ci sia un certo feeling).
L’altra sicuramente più aperta a accogliente in termini di frontiere e politiche interne, ma molto aggressiva sullo scacchiere internazionale. Aspetto, quest’ultimo, che ha portato molti analisti, fra cui il politologo Iam Bremmer, a temere un ritorno alla guerra fredda se non addirittura lo scoppio di una Terza Guerra Mondiale, con gli Usa che potrebbero voler difendere con la supremazia militare la fine dell’egemonia economica sul pianeta (si veda a proposito l’interessante analisi di Carlo Formenti su Micro Mega).
Il problema non da poco è che una di queste due figure, a meno di colpi di scena imprevisti come l’impatto di un meteorite sulla Terra o la vittoria di un’outsider come la verde Jill Stein, sarà chiamata a guidare il paese più potente del mondo in un periodo delicato di transizione, in cui lo scacchiere geopolitico internazionale e i bilanciamenti di potere si vanno riconfigurando, e gli Usa abbandonano gradualmente il loro primato di superpotenza economica in favore della Cina.
Senza parlare del fatto che i prossimi quattro anni saranno davvero decisivi per segnare quella svolta ecologista paventata e mai realizzata dall’amministrazione Obama. Siamo arrivati all’ultima chiamata e non si può più aspettare. Dunque chi salverà il mondo? Un uomo che sostiene che il cambiamento climatico sia “una stronzata” o una donna che non osa intaccare di una virgola gli interessi delle lobby economico-finanziarie statunitensi?
La domanda ovviamente è retorica, e la risposta scontata: nessuno dei due. Ma sapete una cosa? Forse è meglio così. Le cose a volte evolvono nelle maniere più inaspettate. Ad esempio l’amministrazione Obama ha segnato un punto di stallo per i movimenti ecologisti negli Usa proprio perché considerata “amica degli ambientalisti”. La convinzione diffusa che Obama fosse il deus ex machina che avrebbe risolto da solo i problemi degli States (e del mondo) ha in parte incrementato una diffusa deresponsabilizzazione. Adesso gli americani sanno di per certo che nessuno da lassù li salverà. Possono stare sicuri del fatto che “se tutto va bene, sono rovinati”. Ed è già un ottimo punto di partenza.