In Occidente desta ancora stupore parlare di vini palestinesi e le persone più arroganti – e generalmente anche più ignoranti – rispondono “dei vini? e quelli mica bevono, sono musulmani, dei coltelli vorrai dire!”
Passando al volo sul tema coltelli, c’è da dire che basterebbe riflettere pochi secondi sulle condizioni di vita quotidiana degli occupati per capirne l’esasperazione, ma questo farebbe anche capire che l’unica terapia per curare il male si chiama fine dell’occupazione e non è terapia compatibile con il volere dello Stato più sovrano del mondo, quello che non è tenuto neanche al rispetto della legalità internazionale perché protetto da una coltre di complicità che lo rendono impunito, cioè Israele.
Quindi torniamo ai vini e, con l’occasione, ricordiamo che la Palestina è un’entità geografica e politica e non confessionale e pertanto i palestinesi non sono soltanto musulmani ma anche cristiani e altro. E quindi bevono il vino! E lo producono anche, e anche a livello industriale da ben prima che il padre del sionismo, Theodor Herzl, inventasse la favola della terra senza popolo per un popolo senza terra.
Basta andare sulle colline di Beit Jala per scoprire terrazzamenti antichi realizzati con muri a secco su cui proliferano vitigni autoctoni come il Jandali o il Dabouki, uve che si coltivano su vaste estensioni anche nel distretto di Hebron, dove vengono per lo più consumate fresche e non vinificate.
A Beit Jala i vigneti più famosi sono quelli sulla collina di Cremisan, dove si trova la vineria annessa al convento salesiano dal 1885. Una visita all’antica cantina accompagnati da Fadi, il giovane palestinese che si è laureato in Italia in agro-enologia ed è tornato nella sua terra a guidare l’azienda che lo ha fatto studiare, è un’esperienza interessante. Ci parla delle oltre venti varietà autoctone palestinesi, quelle che a volte Israele, e in particolare i coloni fuorilegge, accampano come proprie definendole”ebraiche” in notevole confusione, peraltro, tra credo religioso ed entità botanico-territoriale!
La visita viene organizzata dal responsabile del Vis (Volontariato internazionale allo sviluppo) che negli anni passati ha dato impulso alla valorizzazione della vineria ed ha sviluppato un progetto che ha reso “eccellenza palestinese” quel che precedentemente era un vino modesto.
Partiamo dall’Università di Betlemme, dove lavora Luigi, il responsabile locale del Vis che ci accompagna nella visita aggiungendo note interessanti circa l’attività di questa ong nel mondo oltre che in Palestina.
Durante la visita, tra botti di legno e di acciaio di cui illustra le funzioni, Fadi spiega che nei primi secoli dell’Islam le uve da vino vennero eliminate a vantaggio di quelle da tavola, pertanto solo una mano di grandissima competenza e abilità poteva ottenere dall’uva da tavolo vini di alta qualità, quelli che Israele vorrebbe fare suoi insieme alla collina che vuole deturpare e confiscare con l’estensione del muro di rapina. Muro che, oltre ad unire tra loro i due insediamenti illegali di Gilo e Har Gilo rinchiudendo, e di fatto assediando la popolazione autoctona, rapinerebbe altra terra fertile e produttiva che appartiene ai contadini palestinesi che la abitano da secoli.
Finito il giro della cantina e dei vigneti, passando alla sala in cui sono in vendita 16 diversi tipi di vino oltre all’olio extra vergine degli olivi Cremisan che si alternano alle vigne, tentiamo qualche domanda a sfondo politico per capire il pensiero di questo giovane arabo palestinese dai bellissimi occhi blu. Nota, quest’ultima, non casuale ma volutamente inserita ad uso di coloro che, massificando per incolpevole ignoranza, restano meravigliati sia dal vino palestinese che da ogni altro elemento che esuli dal luogo comune. Ma Fadi, alle domande di natura politica risponde soltanto che non ne può più di vivere in questo modo, con la violenza quotidiana a bassa o alta intensità, fatta non solo di arresti e uccisioni, ma anche di divieti alla libertà di movimento, di umiliazione costante, di difficoltà anche burocratiche indotte dall’occupazione e dal deterioramento della situazione politica interna, ormai priva di una leadership in cui riconoscersi. Non ne può più e vorrebbe vivere in uno paese “normale”. Non gli interessa che sia uno stato o due o dieci, vorrebbe solo che questa situazione di anormalità in cui sono nati i palestinesi della sua generazione e delle due precedenti finisse in qualche modo e al suo posto arrivasse il rispetto dei diritti umani e civili che fanno dire di uno Stato che è sovrano e democratico.
Ci salutiamo dopo una degustazione di Hamdani Jandali del 2015, l’annata migliore tra le ultime quattro e Fadi alza il calice all’Italia dove ha imparato a conoscere il vino e dove ha scelto di studiare ciò che sarebbe stato il progetto di vita e di lavoro di cui va fiero.
Con una domanda fatta con un filo di malizia chiudiamo l’incontro, chiedendogli se lavorerebbe in una buona cantina israeliana. Ma nonostante Fadi ami molto il suo lavoro come fatto in sé e non segua alcun tipo di militanza politica, la sua risposta è un nettissimo “no, mai!”
Sorridiamo e alziamo tutti i calici. Alla libertà? Alla giustizia? Alla pace. Quella che arriverà solo se accompagnata dalle prime due.