Mercoledì notte leggo le parole, che rimarranno nella memoria di chiunque si occupi di diritti umani, di Paola, la mamma di Giulio, che a proposito delle torture subite da suo figlio dice: “Hanno usato il suo corpo come una lavagna”. Poi, venerdì pomeriggio, leggo la dichiarazione congiunta emessa al termine del nuovo incontro tra la procura di Roma e quella del Cairo.
Non si tratta di mettere in luce l’ovvia differenza di ruolo, di tono, di emozioni. Si tratta di soffermarsi sui risultati, descritti in quella dichiarazione, ottenuti sette mesi e mezzo dopo la scomparsa, il 25 gennaio, di Giulio. A quei risultati si confà l’immagine della montagna che ha partorito un topolino.
Sette mesi e mezzo dopo, la procura egiziana ammette che Giulio era stato pedinato, per poi precisare che quell’attività durò poco, 72 ore (e dunque, implicitamente, non sarebbe in relazione con ciò che accadde dopo). Sette mesi e mezzo dopo, la procura italiana riceve documentazione (“ampia” o “completa”? Quale dei due aggettivi è quello giusto?) sul traffico delle celle telefoniche. Sette mesi e mezzo dopo, non abbiamo ancora le immagini a circuito chiuso delle telecamere della zona dove Giulio venne catturato. E nulla si dice sul dossier recapitato a giugno all’ambasciata italiana a Berna e poi trasmesso alla procura di Roma, nel quale una fonte anonima ricostruisce come e perché Giulio sia stato ucciso.
Sia chiaro: la verità per Giulio Regeni, quella che chiedono milioni di persone in Italia, quella per cui ieri la regista Francesca Archibugi ha scritto “L’Italia dovrebbe fermarsi”, deve passare attraverso una collaborazione finalmente efficace e seria degli investigatori egiziani – e del potere esecutivo cui devono rispondere – con quelli italiani. Nessuno è felice se gli incontri delle procure non danno l’esito sperato.
Ma la dichiarazione congiunta di venerdì pomeriggio contiene molti aggettivi positivi importanti, impegnativi. Forse eccessivamente positivi. Contiene degli impegni a proseguire nella collaborazione che a oggi possono essere considerati dei meri auspici. Anche il ministro degli Esteri Gentiloni, si legge, avrebbe usato aggettivi positivi, definendo “utili e proficui” i colloqui di giovedì e venerdì.