Carlo Carlucci, scrittore, ex insegnante, è tornato in Nicaragua dalla Toscana, dove aveva trascorso gli anni della gioventù. E da là ci racconta di una società con problemi ancora apertissimi e tante contraddizioni. Dopo un esordio sulla nostalgia della rivoluzione, ecco che arriva la poesia e la forza delle emozioni di una terra dalle grandi contraddizioni.

 

«Innanzitutto gli alberi, soprattutto i grandi alberi. Crescono alla velocità con cui crescono i bambini. In trent’anni raggiungono la piena maturità e proporzioni colossali. Mi riferisco qui ai tropici almeno, con la terra ferace che c’è. Nel suo bellissimo libro Siete arboles contra l’aterdecer Pablo Antonio Cuadra (1912-2002) da poeta narra l’epopea dei sette giganti della natura vegetale, l’epica del loro farsi come piante, l’epopea loro nell’America indigena, la loro relazione con gli umani che popolavano il continente.

 

In Nicaragua al momento della Conquista vi erano due culture venute dal nord: la Chorotega, di gran lunga la più antica e quella dei Nicaraguas, così come ci ha narrato il cronista spagnolo Oviedo. I cinquecento anni dalla Conquista non sono propriamente storia, ci dice con saggezza e ironia Pablo Antonio, ma cronaca; nel senso che l’America ispanica ancora non ha saputo né trovato il modo di esprimere tutte le sue immense potenzialità. Ma i tempi marciano rapidi, il grande e rutilante spettacolo offerto da Rio de Janeiro per la chiusura dei giochi olimpici, i fantastici giochi di luce, l’espediente buffo e strano del premier giapponese che viene catapultato a Rio direttamente attraverso una finta, da fumetti, perforazione del globo terrestre, tutti gli atleti di colore incredibilmente felici, a loro agio, tutta la variegata colorazione della pelle di tutti i giovani e meno giovani che appariva per incanto non più discrimine, ma come infinita ricchezza.

 

Tutto ciò dava l’impressione che una nuova America fosse in marcia. E improvvisamente ricordavo i tempi delle Olimpiadi di Città del Messico, con quella foto simbolo dei tre atleti Usa sul podio, tre atleti neri col pugno alzato (black power) e il capo piegato: una vittoria olimpica utilizzata come protesta contro le segregazioni razziali. Ecco il Brasile, melting pot di tutte le razze, l’America Latina tutta stava incominciando a dare una risposta al mondo.

 

In Nicaragua i Chorotega erano i democratici, si affidavano alle decisioni di un senato di anziani; il senato nominava in caso di guerra un capo, che veniva destituito cessata l’emergenza. I Nicaraguas o nahualt invece erano una popolazione insediatasi in epoca molto più recente; erano più bellicosi e aggressivi, tesi a spodestare i Chorotega e avevano permanentemente un capo, il cacique. Da qui forse le due tendenze presenti in tutte le società sudamericane: democrazia vs dittatura. Comunque tracce abbastanza marcate si possono riscontrare tra la popolazione che vive nei paesi che furono fondati e retti dai Nahualt e dai Chorotega.

 

Pressoché tutta la toponomastica in Centro America è indigena e così i nomi dei piatti della ricchissima cucina nicaraguense. Solo la pizza italiana si è ritagliata un posto considerevole, ma ormai è universale. Come l’Italia del resto, nel conscio collettivo del mondo (nostri governanti a parte).

 

E qui un episodio degli anni Ottanta, quando la guerriglia salvadoregna trovava rifugio e aiuti dal Nicaragua rivoluzionario. I due capi erano il comandante Carpio, che si trovava in quel frangente nella Libia di Gheddafi e la sua vice di stanza a Managua. Una notte la numero due fu uccisa a coltellate. Carpio precipitosamente rientrò per assistere assieme a Ortega e agli altri comandanti alla solenne tumulazione della guerrigliera. Due giorni dopo Carpio si suicidava, essendo stato acclarato che il mandante dell’assassinio era lui, geloso della crescente popolarità della numero due. Passa un po’di tempo e in un mercato dove degli amici profughi salvadoregni gestivano una piccola rivendita di frutta e verdura vedo in bella mostra la foto di Carpio. Pensando di avere le traveggole blatero qualcosa tipo che si fossero dimenticati di togliere il ritratto. No, non si erano dimenticati, ma il loro cacique era pur sempre Carpio.

 

Vi è in Nicaragua un divario fra la forza espressiva, la maturità e la singolarità della letteratura e l’evolversi difficoltoso e stentato del paese verso una piena e matura democrazia, ma questa è una delle varie contraddizioni che noi europei facciamo fatica a comprendere. E così come crescono velocemente gli alberi maestosi, con una velocità ancora più incredibile si inselvatichisce un campo non più coltivato, invaso dal cosiddetto charral, la forza vergine e selvaggia che riprende subito possesso di quella terra che l’uomo ha abbandonato. Emblema questo charral delle frequenti regressioni di tanti paesi latinoamericani in sanguinose dittature militari.

 

Ma forse siamo ora entrati in un altro tempo. Simon Bolivar nel vagheggiare l’unificazione dell’America del Sud ribadiva che nosotros los latinos somos un mundo a parte, un mondo dove non esisteva il passato, ma solo il futuro. Per il latinoamericano o iberoamericano l’America dovrà essere l’Eden, costi quel che costi. José Vasconcelos ha prefigurato quanto noi abbiamo avvertito e presentito nella grande festa di chiusura dei Giochi Olimpici a Rio: la predestinazione del Nuovo Continente è quella di costruire la culla di una quinta razza nella quale si fonderanno inevitabilmente tutti i popoli. Pablo Antonio Cuadra, punta emergente del sorprendente iceberg della cultura nicaraguense, tra i suoi innumerevoli scritti ha lasciato in Otro rapto de Europa, le sue note di viaggio in Italia (soprattutto), in Francia e in Germania.