Il Gran Premio del Bahrein quest’anno era la seconda prova della stagione di F1 ed è stato trasmesso in mondo visone domenica 3 aprile, dal circuito della capitale Manama. A distanza di mesi forse qualcuno di voi ricorda il successo del pilota tedesco Nico Rosberg su Mercedes.
In pochi, però, ricorderanno che due mesi dopo il presidente del Centro per i diritti umani del Bahrain, Nabeel Rajab, è stato arrestato con l’accusa di “Diffusione di false informazioni e di voci con lo scopo di screditare lo stato”. Dopo tre mesi di isolamento il 5 settembre il giudice ha confermato il carcere e ha rinviato Rajab a giudizio il prossimo 6 ottobre. Già beneficiario di un provvedimento di grazia lo scorso anno per motivi di salute, questo attivista di 52 anni era stato fermato per aver organizzato proteste e aver “insultato” i vertici sunniti del Bahrain e della Arabia Saudita attraverso alcuni post e teweet diffusi in rete. Dopo il rinvio a giudizio della scorsa settimana diverse ong e attivisti pro-diritti umani hanno lanciato un appello alle autorità del Bahrain, perché “fermino immediatamente il processo” a carico di Rajab, il quale rischia fino a 15 anni di galera “per accuse che violano il suo diritto di libera espressione”. Mantenere in cella Nabeel Rajab per le critiche alle autorità del Bahrain, aggiungono, è segno del “profondo disprezzo per i diritti umani di base”.
Per la famiglia reale del Bahrein Nabil Rajab è da anni un’autentica ossessione. Dopo averlo arrestato tra il 2012 e il 2014 per aver promosso e preso parte a manifestazioni nonviolente, ma non autorizzate e aver così arrecato “disturbo all’ordine pubblico” ha emesso un divieto di espatrio nei suoi confronti nel novembre 2014 (tuttora in vigore) al quale vanno aggiunti sei mesi di carcere nel 2015, poi ridotti a due per motivi di salute, per aver diffuso “un messaggio che potrebbe istigare l’opinione pubblica e mettere in pericolo la pace”. L’ultimo atto dell’accanimento giudiziario contro Rajab è quello che lo vedrà a giudizio il prossimo 6 ottobre, dopo l’arresto del 13 giugno, per i ripetuti interventi a favore della pace in Yemen che per l’autorità locale sono “diffusione di notizie false in tempo di guerra” e “offesa a pubblico ufficiale”.
Le “notizie false” e le “offese” sono legate ai tweet e ai retweet di Rajab sulla situazione dei diritti umani nelle prigioni del regno e alla drammatica guerra in Yemen, dove una coalizione guidata dall’Arabia Saudita e di cui fa parte anche il Bahrein, ha avviato il 27 marzo 2015 un’incessante campagna di bombardamenti aerei, molti dei quali costituiscono crimini di guerra denunciati anche dal nostro Giorgio Beretta su Unimondo perché avvengono anche con armi prodotte e spedite dall’Italia. In uno dei suoi tweet Rajab ha scritto: “La guerra produce odio, distruzione e terrore”, una frase per la quale rischia fino a 15 anni di carcere: 10 per le notizie false (articolo 133 del codice penale), due per l’offesa a uno Stato estero (articolo 215) e tre per quella alle istituzioni nazionali (articolo 216).
Quello di Rajab è un caso simbolo, ma non è un caso isolato. Secondo il Centro per i diritti umani del Bahrain, lo scorso mese nell’arcipelago di 33 isole che compone questo piccolo stato del Golfo Persico, ci sono state “decine di arresti arbitrari, almeno 4 sentenze giudiziarie motivate politicamente e un totale di 3.000 persone detenute ancora senza la formalizzazione di accuse specifiche”. “Questa notizia conferma che in Bahrein vige il criterio della tolleranza-zero contro il dissenso e l’attivismo pacifico, applicato attraverso misure arbitrarie come l’entrata e l’uscita dalle carceri” ha dichiarato James Lynch, vicedirettore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International all’indomani del primo arresto di Rajab. Amnesty International ha inoltre appreso che ad un gruppo di cinque attivisti è stato recentemente impedito di partire per la Svizzera, dove avrebbero dovuto prendere parte a una sessione del Consiglio Onu dei diritti umani. “Nelle ultime settimane è emerso chiaramente che alle autorità del Bahrein interessa poco di cosa il mondo pensa della situazione dei diritti umani nel paese e non si fanno problemi nell’impedire agli attivisti di parlare a livello internazionale” ha concluso Lynch.
In una nota pubblicata il 16 agosto dalle Nazioni Unite si denuncia come oggi in Bahrein “Gli sciiti sono chiaramente presi di mira in base alla loro religione” e che “di recente abbiamo assistito alla dissoluzione dell’Al-Wefaq National Islamic Society” (il principale partito dell’opposizione sciita) accompagnata da una ondata di “arresti, detenzioni, interrogatori e contestazioni penali nei confronti di numerosi leader religiosi, cantanti, difensori dei diritti umani e dissidenti pacifici”. Di recente la repressione dell’opposizione sciita, da parte della monarchia sunnita al potere, oltre a registrare restrizioni dell’accesso ad internet, il divieto di spostarsi e di tenere sermoni pubblici per tutti i principali leader religiosi sciiti, ha visto la condanna a nove anni di carcere per Sheikh Ali Salman, il segretario del partito Al-Wefaq e la revoca della cittadinanza per Isa Qassim, il principale leader religioso sciita. Così, aspettando il prossimo Gran Premio, il Bahrain rimane una monarchia retta da una dinastia sunnita in un paese in cui la maggioranza della popolazione è sciita e dove da troppo tempo la società civile chiede cambiamenti costituzionali e diritti sociali ed economici. Quegli stessi cambiamenti invocati anche nel 2011, sulla scia delle primavere arabe, e che il re del Bahrain ha soffocato grazie all’intervento militare dall’Arabia Saudita.
Alessandro Graziadei