Rafforzare la governabilità: per raggiungere questo obiettivo è stata approvata anzitutto la legge elettorale (cosiddetta “italicum”) e in seguito la riforma della Costituzione, che in autunno verrà sottoposta a referendum popolare. Anche i promotori della riforma ammettono che ciò avverrà a scapito di altri “valori”. È infatti evidente che la legge elettorale sacrifica la rappresentanza del popolo a vantaggio del primo partito, al primo turno (se supera il 40% dei consensi) o al secondo turno di ballottaggio. Ma molti sono i dubbi sulla costituzionalità della norma, in particolare considerando le motivazioni espresse dalla Corte Costituzionale sulla precedente legge elettorale (cosiddetta “porcellum”) proprio su questo punto. Venendo al testo della riforma costituzionale si adduce come fondamentale miglioramento della governabilità il fatto che la fiducia al Governo sia di pertinenza soltanto della Camera (e non più dal Senato), dove il primo partito disporrà di una maggioranza certa grazie al premio previsto dalla legge elettorale. Vero, ma tralasciando il fatto che non poche leggi necessiteranno di approvazione bicamerale, in particolare quelle in materia costituzionale, elettorale, referendaria, di tutela delle minoranze linguistiche, sull’ordinamento e sulle funzioni di comuni e città metropolitane, sull’autonomia delle regioni e relative ai trattati europei. Dato che i senatori verranno eletti – come prescrive la stessa legge di revisione costituzionale – “in conformità alle scelte degli elettori”, cioè con un sistema diverso da quello dei deputati e senza premi di maggioranza, è possibile (e persino probabile) che la maggioranza del Senato non sia conforme a quella della Camera. Il che significa che le leggi sulle materie di competenza bicamerale avranno un percorso parlamentare ben più arduo di quanto accada attualmente, in cui le maggioranze dei due rami del Parlamento sono sempre state sostanzialmente omogenee. Inoltre, se la maggioranza dei senatori sarà diversa da quella dei deputati, avrà la possibilità di fare ostruzionismo, chiedendo la modifica di tutte le norme approvate dalla Camera. Non solo: dato che le modalità attraverso le quali il nuovo Senato determinato dalla riforma potrà intervenire rispetto alle leggi approvate dalla Camera variano a seconda della materia, è possibile che vengano sollevati conflitti di attribuzione, soprattutto se i progetti di legge – come spesso accade – sono relativi ad argomenti diversi e complessi. In altre parole, se entrasse in vigore la riforma, da un lato si semplificherebbe almeno in parte il rapporto tra Governo e Parlamento, ma c’è il forte rischio che aumenti in modo consistente la conflittualità tra Camera e Senato, complicando il procedimento legislativo e rendendo difficoltosa l’attuazione del programma di Governo, che avrà la fiducia dei deputati ma difficilmente l’appoggio di entrambe le istituzioni parlamentari.
Un altro punto che, secondo i fautori della riforma, porterebbe ad un maggiore governabilità consisterebbe nell’eliminazione della competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni, che la riforma riporterebbe in capo allo Stato centrale. Ma ciò che esce dalla porta principale potrebbe rientrare dalle finestre. Anzitutto ci sono molte materie che sono affidate allo Stato solo per le norme generali, mentre la legislazione specifica spetta alle Regioni: e qui si riapre la strada del contenzioso sul limite della norma “quadro” rispetto al dispositivo approvato a livello regionale. Se dalla riforma del Titolo V del 2001 si era andati nella direzione di una produzione legislativa in cui concorressero Stato e Regioni, l’esclusione della competenza regionale potrebbe produrre un aumento dei contenziosi pregiudiziali, soprattutto da parte di Regioni governate da maggioranze diverse da quella che sostiene il Governo centrale. Per non dire dell’arma di possibile “ripicca” – introdotta dalla riforma costituzionale – di cui disporrebbe il Governo nei confronti di Regioni considerate “ostili”, attraverso la clausola di supremazia, che consente allo Stato di intervenire in materie riservate alla legislazione esclusiva delle Regioni in modo discrezionale, quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale. Non è tutto: la restrizione delle competenze Regionali sarà valida soltanto per le Regioni a statuto ordinario, con conseguente accentuazione della condizione di oggettivo privilegio delle Regioni e Province a statuto speciale, che già godono di più ampie competenze. Anzi, una postilla alla legge revisione costituzionale stabilisce che l’eventuale revisione degli statuti speciali debba avvenire “sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome”, stabilendo di fatto che i privilegi si possono eliminare soltanto con il consenso del privilegiato. Non è difficile cogliere in queste norme elementi discriminatori, che facilmente accentueranno la conflittualità tra lo Stato e le Regioni a statuto ordinario e tra queste ultime e le Regioni a statuto speciale, che potrebbero essere considerate fonte di sottrazione di risorse comuni. Anche in questo caso pare difficile trovare nel disegno di revisione costituzionale un reale rafforzamento della governabilità in riferimento ai rapporti tra poteri legislativi regionali e nazionali.
Infine, è palese che questo progetto di riforma costituzionale stia producendo una forte lacerazione politica, essendo stato approvato nella votazione finale soltanto con il consenso della maggioranza di governo, mentre tutte le opposizioni parlamentari hanno abbandonato l’aula senza partecipare al voto. In un simile contesto di contrapposizione, che sicuramente è destinata ad inasprirsi con la campagna referendaria, qualora entrasse in vigore la revisione costituzionale occorrerà mettere in conto future ripercussioni negative. Gli attuali oppositori tenderanno a non riconoscersi nella nuova Costituzione e, quando avverrà l’alternanza della maggioranza parlamentare, vorranno rimodificarla secondo la propria unilaterale visione costituzionale. Quando la Costituzione non è più la fonte delle regole condivise, diventa campo di battaglia politica, a rischio di altalenanti revisioni. Non è certo questo uno scenario di stabilità istituzionale capace di porre solide basi per l’esercizio di una concreta e coerente governabilità.
A meno che si confonda la governabilità con l’esercizio di un forte potere centrale del Governo, utilizzando in modo strumentale la Costituzione e ignorando la conflittualità che ciò può produrre nelle aule parlamentari e nelle istituzioni regionali. La governabilità in realtà si rafforza con la credibilità di una classe politica capace di creare sinergia tra le varie istituzioni del Paese, avviando processi di confronto e di integrazione, nel rispetto di regole condivise. In questa prospettiva si può comprendere la frase di Thomas Jefferson, terzo Presidente degli Stati Uniti d’America: “Il miglior governo è quello che governa meno”.
È il caso di ricordare che il terzo principio della dinamica esprime il concetto che “ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. Soprattutto nelle questioni costituzionali, elettorali e istituzionali bisognerebbe tenerne conto, poiché in gioco non dovrebbe esserci il potere di qualcuno, ma la realizzazione del bene comune.
Riforma costituzionale e governabilità
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