Laura, vuoi parlarci del progetto “Per non dimenticare”?
È un grande lavoro e impegno di ricerca collettivo dal basso con le amministrazioni e le istituzioni rispetto ai grandi temi della Resistenza, dell’Antifascismo, della Deportazione, e vuole essere un grande progetto sulla pace. Un progetto che racchiude un archivio storico audiovisivo di oltre ducentoventi videotestimonianze di ex deportati civili per motivazioni politiche nei campi di concentramento e di sterminio nazifascisti, ossia partigiani, lavoratori delle fabbriche, scioperanti, obiettori, renitenti e oppositori di ogni colore politico, dissidenti contro il regime costituito.
Questo archivio è un’autentica pietra angolare nella lotta contro il revisionismo, il rovescismo, il negazionismo più subdoli e striscianti, intendendo con questi termini tutte quelle correnti che non si possono definire “di opinione”, perché, come sostenevano Gramsci e Matteotti, il fascismo e il nazismo non sono un’opinione: fenomeni di massa criminali che vorrebbero occultare, mistificare e nascondere le verità sugli orrori del fascismo e del nazismo.
Con Fabrizio Cracolici stiamo digitalizzando tutta una serie di videotestimonianze di ex deportati raccolte negli anni Ottanta, Novanta e Duemila dalla biblioteca civica popolare di Nova Milanese. Ormai i testimoni non esistono quasi più, per ovvie ragioni biologiche e anagrafiche. Adesso spetta a noi portare avanti il testimone della tutela della Costituzione per la pace, i beni comuni, la democrazia, il disarmo, e per far rispettare tutte le costituzioni nate dalla Resistenza partigiana antifascista.
Mi pare che il vostro progetto abbia trovato spazio anche in televisione…
Sì, il progetto “Per non dimenticare” ha collaborato anche con la RAI (Radiotelevisione Italiana), la RAI generalista e RAI Educational per la realizzazione di trasmissioni televisive dal titolo “Testimonianze dai Lager”, con la partecipazione di nomi noti della cultura, della politica e dello spettacolo, da Moni Ovadia a Alex Zanotelli, da Gino strada a Tina Anselmi, da Roberto Vecchioni a Massimo Cacciari, e molti altri. Questo progetto collabora anche con diversi istituti, enti di ricerca e associazioni culturali che si occupano di pace, di nonviolenza, di diritti umani, di antimilitarismo, di disarmo, di ambiente, di conversione ecologica, di obiezione di coscienza alle spese militari e nucleari, e si occupano di fare una cultura obiettiva, ossia controinformazione sui temi più scottanti dell’attualità: il Centro Studi Sereno Regis, Rivista Anarchica, PeaceLink, Pressenza, Unimondo, Docenti senza frontiere, Il Dialogo.org e molte altre realtà culturali e di impegno sociale e civile.
Chiunque scriva e non sia agli esordi ha un percorso alle proprie spalle. Un percorso che lo porta a sviluppare il proprio pensiero. Quindi volevo ripercorre alcuni dei temi che hai trattato di volta in volta a partire dal tuo esordio, con il libro dal titolo “Sacro”.
Dal punto di vista sociologico, il sacro si manifesta innanzitutto come opposizione al profano. Istintivamente noi, come singoli, ma anche come collettività e comunità sociale, andiamo a creare questa contrapposizione: è insita nella nostra cultura. Ma in realtà questa distinzione riguarda soprattutto i modi diversi di porsi nel mondo e due diverse condizioni esistenziali.
Vuoi parlarcene brevemente?
Innanzitutto “Sacro” è un libro del 2009, ed è il numero 32 della collana Parole delle Fedi, edita dall’Editrice Missionaria Italiana, dalla EMI. Questa collana di libri tratta i termini chiave del lessico teologico e non solo, come per esempio Islam, morte, vita, religione. Quindi ho sviluppato una di queste tematiche, il concetto di sacro, anche in senso provocatorio. Infatti anche la collana Parole delle Fedi è intesa in senso provocatorio, perché non esiste un solo credo assoluto, una sola fede imposta; perché, in quanto esseri sociali, esistiamo in contesti interculturali e interreligiosi di dialogo tra le comunità, tra le genti, tra le parti e tra i singoli. Il libro vuole dimostrare che non esistono processi di sacralizzazione, di desacralizzazione e di secolarizzazione definiti in un determinato periodo storico, in un determinato tempo; esistono il bisogno, la necessità di religiosità, l’esigenza di trascendente, di spiritualità: sono fenomeni insiti nell’essere umano.
Antropologicamente parlando, possiamo dire che la sacralizzazione è un processo osmotico e sincretico all’interno della società umana. Non esiste un periodo storico più sacro degli altri, in cui l’uomo sia stato più a contatto con l’idea del divino, rispetto ad altri periodi storici. Non esiste nemmeno un periodo di secolarizzazione consecutivo alla modernità. Sono processi che si sviluppano in maniera sincretica e osmotica all’interno della società, come sostiene il leader dei No Muos, Salvatore Giordano, che, in un suo libro di cui sto scrivendo la prefazione, viene proprio a dimostrare questa tesi, partendo dagli studi di Max Weber.
Vuoi raccontarci qualcosa del libro di Salvatore Giordano?
È una sapiente dimostrazione, una tesi importante relativa ai fenomeni della sacralizzazione e della secolarizzazione. Giordano attualizza l’idea che le religioni e l’esigenza di sacralità siano implicite nella dimensione umana e siano dati culturali e umani da analizzare come fenomeni sociali e processi culturali non collegati a un determinato tipo di società e di periodo storico, ma influenzati da diversi fattori microsociali, macrosociali e universali, secondo processi osmotici di interazione di molteplici cause implicite ed esplicite. Infatti, nella realtà sociale sussistono contemporaneamente e sincreticamente la secolarizzazione e la desecolarizzazione.
L’esperienza del sacro e l’urgenza del profano coesistono nello stesso tempo e nel medesimo spazio, a livello di singolo individuo e di collettività, e tra molteplici altre contraddizioni, discrasie e idiosincrasie. Infatti, secondo l’Autore, la secolarizzazione, ossia l’affrancamento della vita pubblica dalla religione, è un fenomeno universale e antropologicamente rilevante, presente nella società e nella socialità umana.
La secolarizzazione non costituisce necessariamente il risultato storico della modernità, non è necessariamente il frutto della modernizzazione e della razionalizzazione capitalistica. La secolarizzazione, come anche il suo opposto, la sacralizzazione, si trovano a interagire e a interferire con altri processi sociali, associati a loro volta a facoltà e propensioni umane tendenzialmente universali, come i processi connessi alla comunicazione e alla socializzazione.
Come avviene per altri processi sociali, non è possibile stabilire con esattezza quando inizia il fenomeno di secolarizzazione-desecolarizzazione-risecolarizzazione, perché è un processo interattivo, in cui l’azione esplicitata dagli attori sociali coinvolti nell’interazione è inarrestabile e incessante. Sussiste una stretta aderenza della secolarizzazione con l’esperienza religiosa, come se un certo grado di esigenza di profano fosse insito persino nelle religioni stesse, ben prima dell’affiorare del razionalismo economico, del disincanto capitalistico e del sorgere del pensiero illuministico della razionalità. Dunque, la modernità ha prodotto non solo il fenomeno della secolarizzazione, ma anche e soprattutto l’affermazione di un certo genere di religiosità, come il fondamentalismo, o l’oltranzismo.
Quindi la secolarizzazione non è soltanto un fenomeno di natura storica?
No, in quanto non è avvenuto in un periodo epocale ed apicale ben preciso, ma è un processo che si attualizza e si rinnova continuamente nell’esistenza quotidiana di persone, gruppi, istituzioni, culture e società.
Per questo dico che “Sacro” è scritto soprattutto in senso provocatorio: perché la vita, la dignità, i diritti degli uomini sono istanze sacrali. Sono necessarie un’insurrezione e una rivoluzione etica delle intelligenze e delle coscienze in difesa delle vite umane, della legalità, della dignità, della democrazia. Le nazioni dovrebbero far rispettare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, la Carta dei Diritti dell’Unione Europea, la Costituzione della Repubblica italiana, la costituzione nata dalla resistenza partigiana antifascista. Invece si persegue una politica ferocemente razzista e assassina, provocando la morte di innocenti nel Mediterraneo. Persone innocenti che sono in fuga da guerre, da dittature, dal terrorismo, da disastri ambientali, e che non possono trovare rifugio nel nostro Paese, non in modo legale e sicuro. Non possono trovare assistenza, accoglienza, solidarietà sulle sponde del mediterraneo, non viene data loro la possibilità concreta di interagire nella nostra società. Al contrario, si perseguono politiche di guerra, di riarmo che travalicano e contrastano la nostra Costituzione. Le spese militari nel mondo crescono e provocano morte, miseria e pericoli per l’umanità. E così la vita, la dignità e i diritti umani sono sempre negati, umiliati e calpestati.
“Sacro” è in realtà un libro dissacratorio: i veri valori sacri sono la vita, i diritti umani, la dignità dell’essere umano.
Sempre nello stesso anno, pubblichi “Memorie e Olocausto” che ha come sottotitolo “il valore creativo del ricordo per una pedagogia della Resistenza nella differenza di genere”, in cui parti da alcune riflessioni di Moni Ovadia per affermare che la forza di resistenza più invincibile, anche se estremamente dolorosa, è la follia creativa, ossia la creatività artistica. Quindi cominci a parlare di Pedagogia della Resistenza. Vorrei che approfondissi questo concetto.
Moni Ovadia è un caro amico, cui indirizziamo i nostri amici più cari che chiedono la sua collaborazione. Così realizziamo una sorta di rete culturale, interculturale e creativa insieme con Daniele Biacchessi, Vittorio Agnoletto e molti altri amici attivisti impegnati sui nostri temi comuni.
In “Educazione e pace” scrivo la presentazione di un DVD ideato e narrato da Moni Ovadia e Elisa Savi dal titolo “Il dovere di ricordare, riflessioni sulla Shoah”, che ha un circuito di distribuzione relativo alle scuole. Questo DVD ci è stato donato da Moni Ovadia nel corso della presentazione di “Memoria Olocausto” nel 2009 a Senago, nell’hinterland milanese. Con questa presentazione abbiamo sostenuto la causa di operai che hanno subito il licenziamento e la chiusura della loro azienda. A questi operai Moni Ovadia ha devoluto l’intero ingaggio della serata. In “Educazione e pace”, come in “Memorie e olocausto”, racconto la presentazione del DVD di Moni Ovadia che raccoglie le testimonianze indirette di nomi noti del mondo dello spettacolo e della cultura, da Jovanotti a Ligabue, da Luciana Littizzetto a Shel Shapiro, da Nicoletta Braschi a Antonio Albanese, che ricordano e leggono varie testimonianze dirette della Shoah, tra cui quella di Primo Levi.
E a che cosa mira questo DVD?
Vuole ricostruire in chiave narrativa, documentaristica e didattica il clima culturale e sociale in cui si sono alimentati lo sterminio, le persecuzioni, il razzismo e l’intolleranza, cioè sostanzialmente il fascismo e il nazismo, attraverso stereotipi e atteggiamenti collettivi che purtroppo sono duri a morire, e che permangono ancora nella nostra società permeando i nostri apparati istituzionali. Infatti la crisi non fa altro che alimentare lo scontento. Dallo scontento si generano movimenti di estrema destra neofascisti, basti pensare a Casa Pound o alla Skin House, che sono ben visti e agevolati dai poteri forti, come per esempio i mercati speculativi, e dalla tirannia dei mercati dell’alta finanza, manovrati a loro volta dalle multinazionali secondo la logica “divide et impera”: più si sgretola e si divide la società, più si riesce ad avere su di essa il massimo controllo, il controllo delle masse. Infatti assistiamo al riemergere delle mitologie e dei mitologemi della razza e dell’eroe che fomentano il razzismo e istigano alla xenofobia, all’odio, all’intolleranza nei confronti dell’altro, del diverso, dell’emarginato. Per questo i giorni dedicati alla memoria non devono scadere nel mero e vacuo rituale celebrativo, ma devono reagire attivamente a queste forme di negazionismo, di revisionismo, di rovescismo. Perché fare memoria della Resistenza, della Deportazione, della Liberazione, dell’Antifascismo è un monito del passato per reagire a questi rischi ancora impliciti nella nostra società.
In che modo?
Il totalitarismo nazifascista impone l’annientamento di diverse categorie di persone, colpevoli solo ed esclusivamente di esistere in quanto tali; di essere portatori di una diversità rispetto agli schematismi ideologici imposti dal sistema di potere del Terzo Reich, che voleva sostanzialmente annientare ogni tipo di diversità, di devianza, di marginalità, ma anche di fragilità, di minorità, dal momento che le vittime erano anche e soprattutto civili: donne, vecchi, bambini. Per questo le comunità educanti e il sistema educativo e formativo devono indurre le nuove generazioni a interrogarsi e approfondire i temi delle minoranze, per esempio la questione aperta dei Rom e dei Sinti che hanno subito il Porrajmos [termine in lingua romanì che indica lo sterminio dei popoli Rom e Sinti da parte dei nazisti durante la seconda guerra mondiale, e di cui furono vittime circa cinquemila persone, ndr].
Le nuove generazioni devono essere sensibilizzate al discorso dell’accoglienza nella scuola, nelle istituzioni, ai temi dell’altro, dei migranti, del pericolo di qualsiasi forma di estremizzazione ideologica. È per questo che, con Fabrizio Cracolici e con il partigiano Emilio Bacio Capuzzo, protagonista del libro Un racconto di vita partigiana. Il ventennio fascista e la vicenda del partigiano Emilio Bacio Capuzzo, portiamo la nostra testimonianza, in forma diretta e indiretta, nelle scuole e ovunque venga richiesta; proprio per tramandare e comunicare il valore della trasmissione della memoria storica tra generazioni. Una memoria che sia base di un insegnamento etico e civile basato sul principio di responsabilità, di speranza e di indignazione contro il processo di accanimento nei confronti dei diritti umani e contro le aggressioni al rispetto dell’altro, che troppo spesso è inteso come altro da sé: il diverso, l’emarginato, il più debole.
Ti riferisci sempre al progetto “Per non dimenticare”?
Sì. Facciamo memoria di ciò che sono stati la Resistenza, la Deportazione, la Liberazione e l’Antifascismo per creare un’utopia realizzabile a partire dalle nostre testimonianze. Un’utopia sociale che apra alla speranza in una società di pace, di giustizia, di democrazia, di equità sociale, di riscatto del mondo del lavoro, ma anche di riscatto ambientale ed ecologico, cioè che porti a una conversione ecologica. Infatti collaboriamo con l’associazione ecopacifista PeaceLink- Telematica per la pace, con sede a Taranto, riconosciuta a livello Europeo e registrata nell’albo delle associazioni della Comunità Europea, che è un portale storico del pacifismo e della nonviolenza, e che coinvolge vari partner, come Pressenza- International Press Agency, Il Dialogo.org, Unimondo, Nigrizia di padre Alex Zanotelli e molte altre realtà.
PeaceLink è un’associazione che si è costituita parte civile nel maxiprocesso “Ambiente svenduto” contro l’Ilva di Taranto e l’inquinamento industriale, a tutela dell’ambiente e della Costituzione, che prevede il rispetto e la salvaguardia del nostro assetto ecologico, del nostro ecosistema, dell’ambiente in cui viviamo; un’ecologia che dobbiamo preservare, che abbiamo il diritto e il dovere di salvaguardare e custodire. Ce lo insegna anche il grande padre partigiano e deportato a Buchenwald, Stéphane Hessel, padre costituente dell’Onu , presidente del tribunale Russell per la Palestina, i cui scritti hanno ispirato il movimento degli indignati e di Occupy Wall Street. Hessel è autore anche di Esigete un disarmo nucleare totale, edito per i tipi della Ediesse. Questo libro postumo di Hessel, uscito in Italia a titolo esclusivo, raccoglie le introduzioni di Mario Agostinelli, Antonio Pizzinato, Alfonso Navarra ed Emanuele Patti. All’interno del libro è citato il nostro progetto “Per non dimenticare”. In questo senso si attualizza quel ponte di memoria tra passato e presente con la memoria storica dell’Antifascismo e della Resistenza e la resistenza contro il neoliberismo, la speculazione, la tirannia dei mercati dell’alta finanza. Un nuovo antifascismo mondiale.
Parli spesso di pedagogia della resistenza, di formazione ed educazione. In questo ambito, nei tuoi libri, proponi un percorso di accompagnamento alla formazione e allo sviluppo della conoscenza dei diritti civili e dei diritti inalienabili della persona. Insomma, un percorso di sviluppo della democrazia, della cittadinanza, della partecipazione. Quello che presenti nelle scuole come un percorso globale di sviluppo educativo si scontra però, spesso, con gli ambienti esterni alla scuola e con la famiglia, che sono portatori di valori diversi, a volte opposti e contrastanti. Quale educazione concreta pensi che si possa creare in questa dicotomia?
Questi sono quesiti molto aperti che anche noi ci poniamo sempre. Il ministro Luigi Berlinguer aveva tentato di introdurre lo studio della storia contemporanea, quindi la didattica della storia e della Shoah, nell’ultimo segmento di ogni ordine di scuola. E aveva tentato di introdurre metodologie per leggere e comprendere il presente. Ultimamente, però, con i ministri Moratti e Gelmini, l’istituzione scolastica è stata depauperata proprio di questa sua missione formativa e soprattutto informativa, piuttosto che rimanere invece nell’attualità del presente.
Per educare all’antifascismo, all’antirazzismo e alla nonviolenza, secondo il monito di Stéphane Hessel occorre ripartire proprio dall’istituzione scuola. Noi non troviamo altra soluzione, perché la scuola, ancora prima della famiglia, rispecchia il pluralismo e la diversità impliciti nella società. Pluralismo e diversità che si vengono a manifestare nel processo educativo: nel percorso didattico si scoprono le caratterialità, le criticità, le implicite diversità, le esigenze del singolo studente che mutua e assimila varie istanze e diverse forme di contenuto dal nucleo famigliare di origine. La scuola, tra l’altro, in un passato che non dobbiamo dimenticare e archiviare, ha subito la discriminazione e l’intolleranza: basti pensare alle leggi razziali nazifasciste del 1938. E la scuola, pur con diversa entità ed intensità, continua ancora a discriminare e a prendere provvedimenti contro i più deboli. Anche il finanziamento pubblico alle scuole private è una forma di discriminazione. La riduzione degli insegnanti di sostegno ai bambini diversamente abili, la negazione della mensa ai meno abbienti sono forme di discriminazione.
I quesiti sono sempre aperti perché auspichiamo una scuola che si apra sempre più alle differenze, agli altri, e non solo da parte degli studenti, ma anche da parte degli insegnanti. Anche il mondo adulto viene messo in discussione nell’ambito e nell’ambiente scuola. Noi veniamo sempre più messi in discussione nei nostri affetti, assetti, nelle nostre convinzioni, nei nostri dogmi e paradigmi caratteriali, a contatto con il mondo infantile.
Quindi una scuola più aperta?
Una scuola che si apra alle implicite esigenze di ciascuno, ai caratteri di cui ognuno è portatore, alle difficoltà implicite che ciascuno presenta. È necessario costruire una scuola senza discriminazione, dove l’altro sia considerato depositario di un’autentica ricchezza da risocializzare e ripartecipare, una ricchezza da condividere nella convivenza nel quotidiano secondo un impegno di responsabilità e di indignazione contro tutte le discriminazioni, contro l’intolleranza, il non rispetto e la violazione dei diritti umani. Una nuova ricchezza sociale partecipativa che vada a incrementare un discorso di civiltà a misura di persona, per una comunità, per un assetto sociale e civile aperto alle differenze, alle divergenze, anche al conflitto, come sostiene il nostro amico Daniele Novara, direttore del centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti di Piacenza.
Anche al conflitto?
Il conflitto è implicito nell’educazione. Noi parliamo di nonviolenza, ma con questo concetto non intendiamo un’idea di passività, di rassegnazione, di debolezza, di lassismo, di incoerenza, di menefreghismo; intendiamo nonviolenza, in senso stretto, come cooperazione, interdipendenza, interconnessione su quelli che sono i diritti umani, quindi cooperazione di tutti i popoli secondo lo slogan proletari di tutto il mondo unitevi. Quindi cooperazione, solidarietà e interdipendenza, come sosteneva una grande pedagogista, Maria Montessori, che fu perseguitata dal fascismo. Mentre in tutt’Italia, in Europa e nel mondo divampava la violenza del secondo conflitto mondiale, Maria Montessori portava nei suoi convegni messaggi di speranza e di pace per l’intera umanità, a partire dall’infanzia. Inizialmente fu vezzeggiata dal fascismo, perché Mussolini voleva strumentalizzare le sue scuole, ma l’impostazione di pensiero di Maria Montessori contrastava nettamente con l’ideologia fascista e l’indottrinamento del regime; basti pensare ai principi di istruzione su cui si fondavano i dettami fascisti per indottrinare la Gioventù Balilla, basati sull’individualismo, sulla competitività ad oltranza, sul disprezzo, sull’aggressività nei confronti dell’altro. Disvalori fascisti che, anche secondo Hessel, sono attualmente veicolati dai mezzi di comunicazione di massa: come la cultura dell’oblio, il consumismo sempre più esasperato, estetizzante e individualistico, la competizione di tutti contro tutti; in sostanza il pensiero unico, capitalista e neoliberista.
Tornando al concetto di nonviolenza, Maria Montessori ne era promotrice, e il suo celebre motto L’educazione come arma della pace è un importante ossimoro per sostenere che tutto si gioca a partire dall’educazione, a partire dalla scuola, per creare contesti di socialità e di solidarietà, per andare oltre le dittature, i totalitarismi, gli sciovinismi, i nazionalismi, proprio per costruire ambienti di pace nel quotidiano. Secondo Montessori, il bambino è portatore di pace già nel suo contesto quotidiano, a livello microsociale, per arrivare a un livello di costruzione della pace universale e globale.
Articolo originale: http://www.inkroci.it/cultura_cinema/interviste-a-scrittori-famosi/intervista-laura-tussi.html