Per continuare la produzione, l’ILVA si indebita sempre di più. Il mercato internazionale dell’acciaio è in crisi per sovrapproduzione. E il principale cruccio del governo è oggi quello di capire dove trovare i soldi per tamponare l’emorragia finanziaria di questa acciaieria che perde due milioni e mezzo di euro al giorno. Una massa di denaro di gran lunga superiore alla somma di tutti gli stipendi di tutti i lavoratori dell’ILVA.
Questo significa che se tutti gli operai dell’ILVA lavorassero gratis, l’azienda sarebbe comunque in perdita per circa un milione e mezzo di euro al giorno. L’ILVA è in rosso quindi non perché paga gli stipendi ma perché non riesce a stare più sul mercato. Invece di fare profitti accumula perdite per ragioni strutturali. La questione di fondo è semplice: sotto i 7 milioni di tonnellate anno l’ILVA non raggiunge il “punto di pareggio” fra costi e ricavi. Non raggiunge quello che gli esperti chiamano break even point. I numeri sono impietosi. Dopo aver prodotto 8,3 milioni di tonnellate di acciaio nel 2012, l’ILVA è scesa a 5,8 nel 2013. I governi hanno pensato di fermare la magistratura, pensando che la causa della discesa della produzione fosse i giudici. E invece no.
Nonostante dieci decreti, che hanno dato mano libera alle ragioni della produzione, ecco che la produzione ILVA ha continuato a rimanere sotto il “punto di pareggio” di 7 milioni di tonnellate anno. I dati sono questi: 6,4 nel 2014 e solo 4,9 nel 2015.
Che fare allora? Il governo vuole vendere la fabbrica, per sbarazzarsi di un problema senza soluzione, dato che persino la Cina ha cominciato a chiudere le acciaierie più inquinanti e a ridurre la produzione di acciaio, prima volta nella sua storia recente. L’obiettivo del governo italiano è quello di ritardare l’affondamento della nave che imbarca acqua, cercando – al momento dell’inabissamento – di non apparire tuttavia responsabile del disastro.