Quando la violenza è attuata su un bambino che non può difendersi dai soprusi, diventa un crimine di proporzioni incalcolabili e non riusciamo a tollerarla. Noi adulti rimaniamo sconvolti, il materno che c’è in ognuno di noi avverte un senso di rivolta interiore che ci porta a pensare di non poter rimanere inermi.
Il grave fatto dell’asilo privato milanese, venuto alla luce tra la fine luglio e i primi di agosto del 2016, impone una riflessione sul significato di questi abusi. Come ci ha insegnato la psicoanalista Alice Miller nei suoi libri, certi comportamenti violenti lasciano segni indelebili e, se gli abusi subiti durante l’infanzia non vengono elaborati, si innesca il meccanismo di identificazione con l’aggressore per cui si diventa da adulti a propria volta violenti; non accade solo ciò, bensì certe esperienze sono in grado di attivare condotte come la grandiosità per cui, ad esempio, si perpetuano crimini spacciandoli per patriottismo. La Miller stessa fu una bambina abusata, come racconta nel suo scritto La fiducia tradita, non dalle botte, non da abusi sessuali ma dal silenzio: sua madre, per punirla di qualcosa che alla piccola era sconosciuto, non le rivolgeva la parola permeandola di un mutismo inspiegabile e alzando per giorni un vero e proprio muro di silenzio. Non c’è nulla di più deleterio di un castigo ingiustificato, ciò crea in chi lo subisce un sentimento di colpa per qualcosa di immotivato e sconosciuto che genera disagio e forte senso di inadeguatezza. Le conseguenze sulla vita adulta sono facilmente immaginabili: ne scaturisce un individuo insicuro, bisognoso di attenzione, che avverte continuamente di essere nel torto e non riesce a vivere la vita che vorrebbe. Soffrendo immensamente, si percepisce colpevole di tutto anche se non lo è per nulla. L’educatrice in questione, con due lauree e le autorizzazioni professionali in regola, ha sottoposto a vere e proprie torture educative i piccoli a lei affidati: legati, messi al buio, malmenati, morsicati, obbligati a mangiare per ingozzamento. Bambini molto piccoli puniti per qualcosa che non avevano commesso. I piccini hanno un’età che va da pochi mesi fino a meno di tre anni quindi incapaci di essere scalmanati, maleducati o bulli: se pensiamo a questo ci rendiamo conto quanto i comportamenti della signora siano inspiegabili. Lo sarebbero anche con bambini più grandi, perché correggere gli errori non significa farlo con mezzi violenti. Essere Educatrice, lo dicono gli Orientamenti del 1991 in una sezione che si intitola Strutture di professionalità, implica alcune specifiche caratteristiche come: equilibrio, autocontrollo, pazienza, rispetto per la personalità altrui. Tutto questo è stato violato compiendo gesti capaci di procurare segni difficili da curare, sintomi che vanno ad interferire sulle paure innate come quella del buio e a disturbare l’assunzione del cibo obbligando i bambini a nutrirsi con la forza. Questi due gesti da soli sono violenza allo stato puro e devono farci comprendere che un approccio educativo alla nonviolenza dovrebbe far parte integrante delle relazioni, a partire dalla più tenera età. Infine, il nido è il primo ingresso del bambino in una struttura extra-famigliare, una sorta di debutto sociale: momento delicato della sua apertura sul mondo, un trauma può quindi condizionare i suoi futuri rapporti con la scuola.
Da più parti si evocano le telecamere per prevenire futuri fatti inammissibili e pericolosi come questi, personalmente renderei obbligatori i controlli sulla salute mentale di chi prende tra le mani i nostri bambini. L’insegnamento è libero e liberi ne sono i metodi da applicare, ma ciò è circoscritto alla didattica e non ai mezzi di “correzione”.