È ancora incerta la data dell’importantissimo referendum (ottobre, novembre o dicembre?) che chiamerà gli italiani ad esprimersi sulla legge di revisione costituzionale che ha preso il nome di Renzi-Boschi. Duro lo scontro tra il fronte del no e quello del sì. Luigi Ferrajoli, giurista, ex magistrato, docente universitario, filosofo del diritto italiano, allievo di Norberto Bobbio, definisce questa legge «una grave aggressione alla Costituzione». Vediamo perché.

 

Luigi Ferrajoli è uno dei maggiori teorici del diritto italiano. Ex magistrato, ha contribuito a fondare Magistratura Democratica, è stato professore di Filosofia del diritto, prima a Camerino e poi a Roma 3. Fra le sue opere, che sviluppano un progetto tracciato sin dalla tesi di laurea, possono ricordarsi almeno Teoria assiomatizzata del diritto (Giuffrè, 1970), Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale (Laterza, 1989) e l’ultima monumentale Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia (Laterza, 2008). Alterna al lavoro teorico e alle conferenze in ogni parte del mondo l’intervento puntuale su temi civili.

Vi proponiamo questo intervento di Ferrajoli sul referendum confermativo costituzionale, comparso su Libertà e Giustizia.

1. Potere di revisione costituzionale e potere costituente – C’è un fatto che accompagna, da circa trenta anni, la lunga crisi della democrazia italiana. All’aggravarsi di tutti i suoi aspetti – il discredito e lo sradicamento sociale dei partiti, la loro subalternità all’economia e alla finanza, la loro opzione comune e sempre più esplicita per le controriforme in materia di lavoro e di stato sociale – ha fatto costantemente riscontro il progetto di indebolire il Parlamento e di rafforzare il governo, tramite modifiche sempre più gravi della seconda parte della Costituzione repubblicana: dapprima, negli anni Ottanta e Novanta, i tentativi delle  Commissioni Bozzi, De Mita-Jotti e D’Alema; poi l’assalto ben più di fondo alla Costituzione da parte del governo Berlusconi con la riforma del 2005, scritta dai cosiddetti “quattro saggi” in una baita di Lorenzago e bocciata dal referendum del giugno 2006 con il 61% dei voti; infine l’ultima, non meno grave aggressione: la legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi approvata il 12 aprile 2016, sulla quale si svolgerà il referendum confermativo nel prossimo ottobre. Di nuovo, come sempre, l’argomento a sostegno della revisione, oltre a quello penoso e demagogico della riduzione dei costi della politica, è stato la necessità di accrescere la “governabilità” nel tentativo, ancora una volta, del ceto di governo di far ricadere sulla nostra carta costituzionale la responsabilità della propria inettitudine.

L’attuale revisione costituzionale investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139. Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra Costituzione, diversa da quella del 1948. Ma la nostra Costituzione non consente l’approvazione di una nuova Costituzione, neppure ad opera di un’ipotetica assemblea costituente che pur decidesse a larghissima maggioranza. Il solo potere ammesso dall’articolo 138 della nostra Costituzione è un potere di revisione, che non è un potere costituente ma un potere costituito. Di qui il primo profilo di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138 in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo.

La differenza tra i due tipi di potere è radicale: il potere costituente è un potere sovrano, che l’articolo 1 attribuisce al “popolo” e solo al popolo, sicché nessun potere costituito può appropriarsene; il potere di revisione è invece un potere costituito, il cui esercizio non può consistere nella produzione di una nuova Costituzione, ma solo in singoli e specifici emendamenti onde sia consentito ai cittadini, come ha più volte stabilito la Corte Costituzionale, di esprimere consenso o dissenso, nel referendum confermativo, alle singole, specifiche revisioni. E’ una questione elementare di teoria del diritto e di grammatica giuridica: l’esercizio di un potere costituito non può trasformare lo stesso potere del quale è esercizio in un potere costituente senza degradare ad eccesso, o peggio ad abuso di potere. Ed è paradossale che di questo eccesso e di questo abuso di potere si sia fatto fin dall’inizio promotore il Presidente della Repubblica, che aveva giurato fedeltà a questa Costituzione e che di essa avrebbe dovuto essere il custode e il garante. Ma è anche una questione di teoria politica e di grammatica democratica: la differenza e la distinzione tra potere costituente e potere costituito, formulata da Sieyés più di due secoli fa, rappresenta infatti una sorta di postulato di qualunque costituzionalismo democratico. Giacché le costituzioni sono norme che costituiscono e disciplinano i pubblici poteri, imponendo loro limiti e vincoli. E’ questo il loro senso e il loro ruolo. E perciò non possono gli stessi poteri costituiti dalla Costituzione cambiare radicalmente la Costituzione dalla quale sono disciplinati e limitati.

Si tratta di una logica del costituzionalismo adottato da quasi tutte le costituzioni e confermato dall’esperienza costituzionale di tutte le grandi democrazie. Giacché le costituzioni sono una cosa seria, che nelle democrazie serie sono emendabili, cioè suscettibili di singole e specifiche riforme, ma non modificabili per intero. Proviamo a pensare come sarebbe accolta l’idea di una nuova Costituzione negli Stati Uniti. Riflettiamo sul perché mai nessun partito, nessun presidente, nessun uomo politico penserebbe di proporre un cambiamento dell’intera Costituzione statunitense del 1787, da tutti concepita, difesa e sacralizzata come il patto costituente e la carta d’identità della nazione. Della Costituzione degli Stati Uniti sono infatti possibili solo emendamenti, la cui approvazione richiede, secondo il suo articolo 5, una procedura gravosissima: che la proposta di un semplice emendamento sia avanzata dai due terzi dei componenti del Congresso o da due terzi delle legislature dei vari Stati, e che nel primo caso l’emendamento sia approvato se votato dalle legislature di tre quarti degli Stati e, nel secondo, se votato dai tre quarti dei membri di un’apposita Convenzione convocata dal Congresso. In quasi nessun Paese, poi, è consentita la revisione totale della Costituzione, ma solo la revisione parziale mediante singoli emendamenti,  sottoposti peraltro a procedure di revisione ben più gravose di quella prevista dal nostro articolo 138: l’approvazione da parte dei due terzi dei membri delle due Camere in Germania e in Giappone e da parte dei tre quinti in Spagna, seguita sempre in Giappone, e in Spagna su richiesta di un decimo dei membri di una Camera, da un referendum popolare. Dove è prevista la revisione totale, come in Spagna e in Svizze­ra, essa è sottoposta a procedure talmente laboriose da renderla quasi impossibile e comunque totalmente sottratta a colpi di mano di maggioranza. In base all’articolo 168 della Costituzione spagnola, si procede dapprima alla votazione del nuovo testo a maggioranza di due terzi di ciascuna Camera, poi allo scioglimento immediato delle Cortes, poi alla ratifica della nuova Costituzione a maggioranza di due terzi delle nuove Camere e infine al referendum sulla revisione approvata. In Svizzera, in base all’articolo 120 della Costituzione del 1874, per la revisione totale si richiede anzitutto che la proposta sia avanzata da una delle due Camere o da 100.000 elettori; successivamente si procede al referendum sul quesito “se la riforma totale debba o no aver luogo”; poi il Parlamento viene sciolto; poi si procede alla sua rielezione per elaborare la nuova Costituzione; infine, in base all’articolo 123, la Costituzione riformata viene sottoposta e referendum.

2. Una costituzione di minoranza – Ma ancor più gravi sono la forma e la sostanza della nuova Costituzione su cui saremo chiamati a votare nel referendum di ottobre. Per il metodo con cui è stata approvata e per i suoi contenuti, questa legge di revisione è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione.

Innanzitutto per il metodo. Non è con i modi adottati dal governo Renzi che si trattano le costituzioni. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti. Così è stato per la Costituzione italiana del 1948, approvata dalla grandissima maggioranza dei costituenti – 453 voti a favore e 62 contrari – pur divisi dalle contrapposizioni ideologiche dell’epoca. Così è sempre stato per qualunque Costituzione degna di questo nome.

La Costituzione di Renzi è invece una Costituzione che divide: una Costituzione neppure di maggioranza, ma di minoranza, approvata ed imposta, però, con lo spirito arrogante delle maggioranze. E’ in primo luogo una Costituzione approvata da una piccola minoranza: dal partito di maggioranza relativa, che alle ultime elezioni prese il 25% dei voti, corrispondenti a poco più del 15% degli elettori, trasformati però, dalla legge elettorale Porcellum dichiarata incostituzionale, in una fittizia maggioranza assoluta, per di più compattata dalla disciplina di partito e dal trasformismo governativo di gran parte dei suoi esponenti pur fermamente contrari. Insomma, una pura operazione di palazzo. E tuttavia questa minoranza ha imposto la sua Costituzione con l’arroganza di chi crede nell’onnipotenza della maggioranza: rifiutando il confronto con le opposizioni e perfino con il dissenso interno alla cosiddetta maggioranza (“abbiamo i numeri!”), rimuovendo e sostituendo i dissenzienti in violazione dell’articolo 67 della Costituzione, minacciando lo scioglimento delle Camere, strozzando il dibattito parlamentare con “canguri” e tempi di discussione contingentati in sedute-fiume e notturne, ponendo più volte la fiducia come se si trattasse di una legge di indirizzo politico, ottenendo l’approvazione in un clima di scontro giunto a forme di protesta di tipo aventiniano, fino all’ultima, gravissima deformazione del processo di revisione: il carattere plebiscitario impresso al referendum costituzionale dal presidente del Consiglio che lo ha trasformato in un voto su se stesso.

Non si potrebbe immaginare un’anticipazione più illuminante di quelli che saranno i rapporti tra governo e Parlamento se questa riforma andasse in porto: un Parlamento ancor più umiliato, espropriato delle sue classiche funzioni, ridotto a organo di ratifica delle decisioni governative. Del resto, sia l’iniziativa che l’intera gestione del procedimento di revisione sono state, dall’inizio alla fine, nelle mani del governo; laddove, se c’è una questione di competenza esclusiva del Parlamento e che nulla ha a che fare con le funzioni di governo, questa è precisamente la modifica della Costituzione. L’illegittima mutazione del referendum costituzionale in un plebiscito era perciò implicito fin dall’origine del processo di revisione e strettamente connesso a un altro suo profilo di illegittimità: al fatto che il potere di revisione costituzionale, proprio perché è un potere costituito, ammette solo emendamenti specifici, singolari e univoci, i quali soltanto consentono che il successivo referendum previsto dall’articolo 138 avvenga, come ha più volte richiesto la Corte costituzionale, su singole e determinate questioni, e non si tramuti, appunto, in un plebiscito.

Si capisce come una simile revisione – quali che fossero i suoi contenuti, anche i più condivisi e condivisibili – meriti comunque di essere respinta, soltanto per il modo con cui è stata approvata. Giacché essa è uno sfregio alla Costituzione repubblicana, dopo il quale la nostra Costituzione non sarà più la stessa perché non avrà più lo stesso prestigio. Le costituzioni, infatti, valgono anche per il carattere evocativo e simbolico del loro momento costituente, quale patto sociale di convivenza. Questa nuova Costituzione sarà percepita come il frutto di un colpo di mano, di un atto di prepotenza e prevaricazione sul Parlamento e sulla società italiana. Sarà la Costituzione non della concordia ma della discordia; non del patto pre-politico, ma della rottura del patto implicito in ogni momento costituente. Indipendentemente dai contenuti.

3. Un monocameralismo imperfetto – Ma sono precisamente i contenuti l’aspetto più allarmante della nuova Costituzione. Si dice che con essa viene superato il bicameralismo perfettamente paritario. E’ vero. Ma il superamento del bicameralismo perfetto avviene con la sua sostituzione con un monocameralismo sommamente imperfetto. Imperfetto per due ragioni.

In primo luogo perché la seconda Camera non è affatto abolita, ma sostituita da un Senato eletto non dai cittadini, come vorrebbe il principio della sovranità popolare, ma dai Consigli regionali “in conformità” – non è chiaro in quali forme e grado – “alle scelte espresse dagli elettori”, e tuttavia dotato di molteplici competenze legislative. Contrariamente alla semplificazione vantata dalla propaganda governativa, ne seguirà un’enorme complicazione del procedimento di approvazione delle leggi. Basti confrontare l’attuale articolo 70 della Costituzione composto da una riga – “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” – con il suo nuovo testo, articolato in sette commi lunghi e tortuosi che prevedono ben quattro tipi di leggi e di procedure: a) le leggi di competenza bicamerale, come le leggi costituzionali, le leggi di revisione costituzionale, le leggi elettorali e altre importanti e numerose leggi sull’ordinamento della Repubblica; b) tutte le altre leggi, di competenza della Camera ma a loro volta differenziate, a seconda del grado di coinvolgimento del Senato nella loro approvazione, in tre tipi di leggi: b1) le leggi il cui esame da parte del Senato può essere richiesto da un terzo dei suoi componenti e sulle cui modificazioni la Camera si pronuncia a maggioranza semplice in via definitiva; b2) le leggi di cui all’articolo 81 4° comma, le quali vanno sempre sottoposte all’esame del Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data di trasmissione; b3) le leggi di attuazione dell’articolo 117, 4° comma della Costituzione, che richiedono sempre l’esame del Senato e le cui modificazioni a maggioranza assoluta dei suoi componenti sono derogabili solo dalla maggioranza assoluta dei componenti della Camera.

E’ chiaro che questo pasticcio – quattro tipi di procedure, differenziate sulla base delle diverse materie ad esse attribuite – si risolve in un’inevitabile incertezza sui diversi tipi di fonti e procedimenti, ancorati alle diverse ma non sempre precise e perciò controvertibili competenze per materia. Il comma 6° del nuovo articolo 70 stabilisce che “i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza”. Ma come si risolverà la questione se i due presidenti non raggiungeranno un accordo? E comunque l’incertezza e l’opinabilità delle soluzioni adottate rimangono, e rischiano di dar vita a un contenzioso incontrollabile su questioni di forma che finirà per allungare i tempi dei procedimenti e per investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi di incostituzionalità per difetti di competenza.

Ma c’è soprattutto una seconda ragione, ben più grave e di fondo, che rende inaccettabile il monocameralismo imperfetto introdotto da questa revisione: la trasformazione della nostra democrazia parlamentare, provocata dalla legge elettorale maggioritaria n. 52 del 6 maggio 2015, in un sistema autocratico nel quale i poteri politici saranno interamente concentrati nell’esecutivo, e di fatto nel suo capo, ben più di quanto accada in qualunque sistema presidenziale, per esempio negli Stati Uniti, dove è comunque garantita la netta separazione e indipendenza del  Congresso, titolare del potere legislativo, dal Presidente. Il sistema monocamerale infatti, in una democrazia parlamentare, implica un sistema elettorale puramente proporzionale, in forza del quale i governi e le loro maggioranze si formano in maniera trasparente in Parlamento, quali frutti del dibattito e del compromesso parlamentare, e restano costantemente subordinati alla volontà della Camera della quale il governo è espressione. Solo così il monocameralismo è un fattore di raffor­zamento, anziché di emarginazione del Parlamento: solo se l’unica Camera – la  Camera dei deputati – viene eletta con un sistema elettorale perfettamente proporzionale, in grado di rappresentare l’intero arco delle posizioni politiche, di garantire perfettamente l’uguaglianza del voto, di riflettere pienamente il pluralismo politico e, soprattutto, di assicurare costantemente la presenza e il ruolo di controllo delle forze di opposizione e di minoranza. E’ stato solo questo il monocameralismo proposto in passato dalla sinistra: quello che, grazie alla massima rappresentatività ed efficienza decisionale dell’unica Camera, alla sua composizione pluralista e alla forza delle minoranze e delle opposizioni, assicura quella che chiamavamo la “centralità del Parlamento”, cioè il suo ruolo di indirizzo politico e di controllo sull’attività del governo quale si conviene a una democrazia parlamentare.

Al contrario, il monocameralismo imperfetto generato dall’azione congiunta della costituzione Renzi-Boschi e della legge elettorale iper-maggioritaria del 2015, votata anch’essa con innumerevoli forzature e da ultimo con l’imposizione della fiducia, si risolve in una pesante distorsione sia della rappresentanza politica che delle funzioni di controllo e di indirizzo spettanti al Parlamento. Questa nuova legge elettorale, il cosiddetto Italicum, è infatti sostanzialmente una riedizione del vecchio Porcellum, con due lievi miglioramenti che non ne annullano il difetto di rappresentatività: il primo è l’assegnazione del cospicuo premio di maggioranza del 54% dei seggi (340 su 630) alla lista che raggiunge più del 40% dei voti oppure, se nessuna lista raggiunge tale soglia, alla lista vincente nel ballottaggio tra le due liste maggiormente votate; il secondo è la previsione di liste elettorali brevi, in gran parte pregiudicato, tuttavia, dalla sostanziale nomina dall’alto di tutti i capolista. E’ chiaro che con un simile sistema elettorale, che assegna automaticamente la maggioranza dei seggi alla maggiore minoranza, il Parlamento monocamerale è destinato a ridursi a un organo decorativo di ratifica plaudente delle decisioni del governo, a questo legato da un rigido rapporto di fedeltà. Ne risulterà alterato l’intero equilibrio dei poteri e sostanzialmente capovolto il rapporto di fiducia: non più la fiducia della Camera che il governo deve ricevere e mantenere, ma al contrario la fiducia del governo, e precisamente del suo capo, che i parlamentari di maggioranza dovranno guadagnarsi e mantenere se non vorranno rischiare lo scioglimento del Parlamento e la loro non rielezione. Del resto la riforma della nostra democrazia parlamentare in un sistema cripto-presidenziale è rivelata dall’articolo 2 comma 8 dell’Italicum: “i partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e il cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica”. In questo modo il voto per la forza politica “che si candida a governare” è anche il voto per il “capo della forza politica” che si candida a divenire il capo del governo, in contrasto con l’art. 92 della Costituzione, rimasto inalterato, che ne affida la nomina al Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni dei gruppi parlamentari. Sarà ben difficile non solo la nomina di una persona diversa, ma perfino la sfiducia, destinata inevitabilmente a provocare lo scioglimento della Camera.

E’ insomma l’azione congiunta della nuova Costituzione e della riforma elettorale che è destinata a provocare un indebolimento della rappresentanza parlamentare, e con essa della sovranità popolare, ancor maggiore di quello determinato dal vecchio Porcellum: la drastica riduzione del pluralismo nell’unica Camera rimasta; la lesione dell’uguaglianza nel voto, dato che il voto alla lista maggiore varrebbe quasi il doppio di quello alle altre liste, mentre il voto alle liste che non raggiungono la soglia minima non varrebbe nulla e resterebbe privo di rappresentanza; la rigida maggioranza, infine, automaticamente e stabilmente assegnata al governo nell’unica Camera che esprime la fiducia. Ne risulterebbe vistosamente contraddetta la sentenza n.1/2014 della Corte costituzionale, che censurando un meccanismo sostanzialmente analogo escogitato dal Porcellum ha affermato che esso determina un’”illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare”. Questa stessa “illimitata compressione della rappresentatività”, ha scritto peraltro la Corte, rende questo Parlamento “incompatibile con i principi costituzionali”, e perciò inidoneo, oltre che alle funzioni “di indirizzo e controllo del governo”, anche, e ovviamente più ancora, alle “delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art.138)”. Insomma, ha detto la Corte, questo Parlamento, eletto con una legge incostituzionale, non era abilitato a una revisione costituzionale come quella approvata, tanto più se associata a una riforma elettorale che ha riprodotto, nella sostanza, esattamente quella da essa dichiarata costituzionalmente illegittima.

4. La governabilità: dalla sovranità popolare alla sovranità dei mercati – Ma forse è proprio questa azione congiunta delle due riforme ciò che viene perseguito da Matteo Renzi, in accordo con il suo progetto di mutamento in senso decisionista e populista del sistema politico. Del resto, nel momento in cui si è invertito il rapporto tra politica ed economia, non essendo più la politica che governa l’economia ma viceversa, la semplificazione in senso autoritario del sistema politico diventa necessaria. “Governabilità” è la parola d’ordine con cui, oggi come ieri – da Craxi a Berlusconi e a Renzi – viene giustificata questa semplificazione: che vuol dire onnipotenza della politica rispetto alla società, resa necessaria dalla sua impotenza e dalla sua subalternità ai poteri dei mercati. Di qui il nesso funzionale tra prima e seconda parte della Costituzione e l’enorme incidenza delle modificazioni di questa su quella, dedicata ai diritti dei cittadini. “Ce le chiede l’Europa”, affermano i nuovi costituenti a proposito delle loro riforme. E’ vero: l’Europa e tramite l’Europa i mercati ci chiedono l’involuzione autocratica delle nostre democrazie, necessaria perché i nostri governi abdichino al loro ruolo di governo dell’economia e della finanza e possano liberamente aggredire i diritti sociali e del lavoro dai quali dipendono la vita e la dignità dei cittadini.

Già oggi, tra decreti-legge, leggi delegate e leggi di iniziativa governativa, circa il 90% della produzione legislativa è di fonte governativa. La cosiddetta revisione equivale alla costituzionalizzazione e al perfezionamento di questo processo di verticalizzazione e concentrazione dei poteri nell’esecutivo, al quale essa assegna corsie privilegiate e tempi abbreviati – l’approvazione entro settanta giorni – per i disegni di legge “indicati come essenziali per l’attuazione del programma di governo”. Già oggi, grazie alle mani libere dei governi, si è prodotto un sostanziale processo decostituente in materia di lavoro e di diritti sociali, con l’abbattimento di quell’ultima garanzia della stabilità dei rapporti di lavoro che era l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e con il venir meno della gratuità della sanità pubblica e la monetizzazione di farmaci e visite che pesa soprattutto sui poveri, al punto che ben 11 milioni di persone nel 2015 hanno dovuto rinunciare alle cure. La nuova Costituzione rende ancor più libera da limiti e vincoli questa “governabilità”, interamente a spese dei ceti più deboli. Si parla sempre del Pil come della sola misura della crescita e del benessere; mentre si tace sul fatto che per la prima volta nella storia della Repubblica sono diminuite le aspettative di vita delle persone.

Si capisce allora come dall’esito del referendum confermativo dipenderà il futuro della nostra democrazia: la conservazione, almeno sul piano normativo, del suo carattere parlamentare e la domanda popolare di una svolta diretta a restaurarlo, oppure la legittimazione e lo sviluppo dell’attuale deriva anti-parlamentare; la riaffermazione della sovranità popolare, oppure la consegna del sistema politico alla sovranità anonima e irresponsabile dei mercati.

In tutti i casi, qualunque sarà l’esito del referendum, la battaglia in difesa della democrazia costituzionale non sarà finita. Se vincerà il sì, occorrerà puntare a una riforma della legge elettorale in senso puramente proporzionale, senza premi di maggioranza né soglie di accesso al Parlamento, quale sola garanzia perché l’unica Camera non si riduca a una propaggine del governo. Se invece vincerà il no, occorrerà che quanti hanno a cuore la salvaguardia della nostra Costituzione e del modello di democrazia da essa disegnato si impegnino a mettere finalmente l’una e l’altro al riparo da future aggressioni di parte, mediante un rafforzamento della procedura di revisione prevista dall’articolo 138: una maggioranza quanto meno dei due terzi dei componenti del Parlamento per qualunque modifica; la rigidità assoluta associata ai principi supremi – uguaglianza, diritti fondamentali, rappresentanza politica e separazione dei poteri – attraverso l’esplicita esclusione, già adottata nelle costituzioni più recenti, dalla Costituzione portoghese a quella brasiliana, di qualunque loro riduzione o restrizione; infine il carattere di emendamento singolare, cioè di modifica o integrazione di singole norme, e non di interi titoli della Carta, che dovrà avere qualunque legge di revisione costituzionale.

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