Abbiamo incontrato Juljjeta Goranci a Sarajevo. Lei è a capo del Nansen Dialogue Center, un’associazione che da oltre 15 anni e con grande passione si occupa di promuovere il dialogo tra le diverse etnie della Bosnia-Herzegovina, dopo il disastro della guerra.
Tutto è cominciato nel 1995, in seguito a una visita a Sarajevo di un rappresentante della Nansen Humanistic Academy di Lillehammer, in Norvegia. Volevano dare il loro contributo alla ricostruzione e così è nato il progetto, appoggiato finanziariamente dal governo norvegese.
Nansen fu un esploratore e uno scienziato norvegese, premiato nel 1922 con il Nobel per la Pace per il grande lavoro umanitario svolto a favore dei rifugiati della prima guerra mondiale. A lui si deve la creazione del “Nansen Passport”, un certificato per i rifugiati riconosciuto da oltre 50 stati. Dopo la sua improvvisa scomparsa, nel 1930, fu creato il Nansen International Office for Refugees affinchè il suo lavoro potesse continuare, premiato nel 1938 con un altro Nobel per la Pace.
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Come è cominciato il tuo coinvolgimento nel progetto?
La Nansenskolen, Accademia Umanistica di Lillehammer, in collaborazione con l’International Peace Research Institute di Oslo, la Croce Rossa norvegese la NCA (Norwegian Church Aid) e con il supporto finanziario del Ministero degli Affari Esteri norvegese, ha promosso la formazione di gruppi di lavoro composti da rappresentanti delle diverse etnie proveniente da diversi settori social (professionisti, politici, attivisti…), che per un periodo di diverse settimane hanno lavorato insieme presso il loro centro, in Norvegia, quindi in un ambito neutro. Io ho fatto parte di uno di questi gruppi.
Come si è formata la rete dei centri Nansen in Bosnia e cosa gli ha dato impulso?
Con il tempo diversi di noi, tornati a casa e con il supporto dell’Accademia e del governo norvegese, hanno creato centri in vari punti della Bosnia, per poter promuovere il lavoro di riconciliazione tra le diverse etnie. Il Nansen Dialogue Center di Sarajevo è nato nel 2000, in rete con altri 7 centri, formatisi in diversi momenti e dislocati in diverse città bosniache. Nonostante i differenti background etnici dei partecipanti ai gruppi di Lillehammer, il lavoro svolto insieme ha permesso lo sviluppo di forti relazioni interpersonali e professionali che ci hanno messo in grado di cooperare, a prescindere dalle divisioni etniche, nelle nostre rispettive comunità, consentendo la formazione del NDN (Nansen Dialogue Network). Importante è stato anche il processo di seguimento sviluppato nelle diverse comunità da parte dello staff Nansen, che però non è mai entrato nel merito delle specifiche attività lasciando totale libertà di movimento ai diversi centri.
Cosa ci puoi raccontare del vostro lavoro? Quali i risultati più importanti?
Un punto di svolta nelle attività del nostro centro si è verificato quando, nel 2002, il Dipartimento Regionale per l’Educazione dell’OCSE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea) ci ha chiesto di organizzare dei corsi di formazione per insegnanti di scuole etnicamente separate in piccoli centri e aree rurali della Bosnia. Ci siamo scontrati con una realtà diversa da quella che credevamo di conoscere e abbiamo imparato tanto. A partire da queste esperienze sul campo abbiamo trasformato la nostra attività e sviluppato un approccio olistico, con grandi risultati. Ci siamo concentrati nella Bosnia dell’est, dove abbiamo trovato una situazione particolarmente difficile. L’approccio olistico consiste nel lavorare su piccoli centri in modo multilaterale, coinvolgendo persone a tutti i livelli e promuovendo il dialogo come processo che va curato, approfondito e seguito nel tempo. Peraltro tutto questo lavoro ha sviluppato una rete di persone che continua a collaborare con noi e con cui, per quanto a volte difficile per le poche energie che abbiamo, continuiamo a restare in contatto.
Una delle esperienze interessanti è quella fatta nelle municipalità di Kravica (serba) e Konievic Polje (bosniaca), nella Bosnia dell’est, non lontano da Srebrenica, dove ci è stato chiesto di fare dei seminari per gli insegnanti. Le scuole sono etnicamente divise, e piuttosto che lasciare i propri figli alla scuola appartenente a un’altra etnia i genitori preferiscono far fare loro chilometri di strada. Noi non entriamo nel merito della divisione, questa è una decisione che spetta alle istituzioni e ai politici locali, ma il lavoro che abbiamo fatto ha permesso la formazione di classi miste di informatica e di inglese, e di recente tutti i genitori, di entrambe le etnie, per la prima volta dopo la guerra hanno lavorato insieme per risistemare e ridipingere una scuola, con il materiale che noi gli abbiamo fornito.
Recentemente, poi, il ministero dell’educazione locale ha stabilito per legge la divisione etnica nelle scuole (prima erano le singole scuole a decidere), e nella Bosnia centrale ci sono state manifestazioni studentesche contro questa decisione: quelli sono stati i bambini con cui noi abbiamo lavorato, e per me è stato molto commovente vederli mettere in atto queste proteste. Questi bambini, questi ragazzi, non vogliono la divisione e chiedono il nostro aiuto, è nostra responsabilità fare tutto il possibile per darglielo.
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Purtroppo dallo scorso anno la politica del governo norvegese è cambiata e non sono più stati concessi i fondi per continuare con questo programma. La conseguenza è stata un ridimensionamento del personale e delle attività, e un gran dispendio di energie per riuscire a trovare altri finanziamenti. Energie che vengono tolte al lavoro con la base sociale. Juljjeta è una donna tenace che crede in quello che fa ed è riuscita a trovare altri finanziatori per poter portare avanti i progetti in corso, ma si confermano le parole del Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon, diventate anche il motto dell’International Peace Congress di Berlino che inizierà il 30 settembre prossimo: “Il mondo è super-armato e la pace manca di fondi”.