Riflettori internazionali accesi su Rio de Janeiro. L’attesa è finita: si apre nella città brasiliana la 31° edizione dei Giochi Olimpici che vedrà presenti atleti di ben 206 Comitati Olimpici Nazionali. 207 anzi. Difatti quest’anno il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) ha deciso di affiancare nella corsa alle medaglie anche un ulteriore Comitato, creato sotto la sua egida: la cosiddetta Squadra Olimpica dei Rifugiati. 10 atleti divenuti 10 rifugiati, fuggiti dai loro Paesi di origine alla ricerca di una nuova speranza di vita. Una decisione senza precedenti nella storia delle Olimpiadi, seppur anticipata dal simbolico passaggio della torcia olimpica in un campo profughi di Atene. “Un segnale di speranza”, lo ha definito il presidente del CIO Thomas Bach, “che servirà ad attirare l’attenzione di tutto il mondo sulla gravità della crisi dei migranti” e ha incontrato il comprensibile sostegno dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR) alle prese con il continuo aumento del numero della popolazione mondiale di rifugiati, sfollati e richiedenti asilo. L’italiano Filippo Grandi, attuale Alto Commissario dell’UNHCR, non ha mancato di dichiarare che “la loro partecipazione alle Olimpiadi è un omaggio al coraggio e alla perseveranza di tutti i rifugiati nel superare le avversità e a costruire un futuro migliore per se stessi e le loro famiglie. L’UNHCR sta con loro e con tutti i rifugiati”. L’annuncio della costituzione della squadra ha inoltre consentito il lancio della campagna dell’UNHCR #WithRefugees, che chiede ai governi di garantire che ogni bambino rifugiato riceva un’istruzione, che ogni famiglia di rifugiati abbia un posto sicuro in cui vivere, e che ogni rifugiato possa lavorare o imparare nuove competenze per dare un contributo positivo alla propria comunità.
Scelti in una rosa di 43 potenziali atleti olimpici, nella selezione il CIO ha tenuto conto non solo delle prestazioni sportive e del riconoscimento dello status di rifugiato internazionale, ma anche della situazione personale e delle difficoltà affrontate dagli sportivi. È così che il Comitato ha individuato nel campo profughi di Kakuma, in Kenya, creato sin dal 1992 e che attualmente ospita ben 114mila persone, i 5 corridori del Sud Sudan inseriti nella squadra: James Nyang Chiengjiek, Yiech Pur Biel e Paulo Amotun Lokoro, i 3 uomini rispettivamente in lizza per una medaglia ai 400, 800 e 1500 metri; e le due donne, Rose Nathike Lokonyen e Anjelina Nada Lohalith, per gli 800 e i 1500 metri. Gli atleti sud sudanesi hanno trovato supporto per la preparazione pre-olimpica dalla kenyota Tegla Loroupe, per ben tre volte qualificata ai Giochi Olimpici a Barcellona, Atlanta e Sydney, con ottime prestazioni in pista.
Già in Brasile si trovavano invece i due atleti di judo della Repubblica Democratica del Congo selezionati per la Squadra olimpica dei rifugiati. Popole Misenga e Yolande Mabika hanno chiesto asilo nel Paese latinoamericano durante i Campionati Mondiali di Judo del 2013 svoltisi sempre a Rio de Janeiro: lo sport ha offerto loro l’occasione di fuggire da allenatori nazionali che li hanno letteralmente “segregati” in caso di perdita di una gara non garantendo loro neanche i pasti. La ben conosciuta violenza e costante guerriglia che colpisce l’est della Repubblica Democratica del Congo, la regione di Bukavu da cui entrambi provengono, aveva già mietuto alcune vittime tra i loro familiari. È la giovane Mabika ad affermare che il judo è la sua vita e che l’ha aiutata a sfuggire alla guerra, a intraprendere un altro percorso, pur nelle immense difficoltà date dall’assenza della famiglia, di un lavoro e dunque di denaro per vivere in maniera dignitosa. Dichiarazione a cui fanno eco le parole del collega Misenga che ricorda “Ho visto troppa guerra, troppi morti. Non voglio entrare in questo. Voglio restare pulito in modo da poter fare il mio sport”. I due atleti sono oggi seguiti da Geraldo Bernardes, ex commissario tecnico della nazionale brasiliana di judo.
Rami Anis e Yusra Mardini sono invece due nuotatori siriani rifugiati in Europa che parteciperanno alla squadra olimpica, il primo gareggerà nei 100 metri farfalla, la seconda nei 200 metri stile libero. La vita del 25nne Rami Anis risulta di certo meno traumatica di altri suoi compagni ma non per questo affatto facile: allo scoppio del conflitto in Siria nel 2011, il giovane da Aleppo si rifugiò da un fratello maggiore a Istanbul e lo scorso anno si trasferì in Belgio dove ha ottenuto lo status di rifugiato. Ben più drammatica, e conosciuta, è la vicenda che ha visto la diciottenne nuotatrice Yusra Mardini suo malgrado protagonista di uno sbarco sull’isola greca di Lesbo che sarebbe potuto trasformarsi in un’ennesima tragedia in mare se la ragazza non fosse riuscita, insieme alla sorella Sarah e a un’altra donna, a trainare fino alla costa a nuoto il gommone su cui viaggiavano e che stava affondando. Anche la giovane è dunque una di quelle migliaia di persone che ha percorso la rotta balcanica, attraverso Macedonia, Serbia e Ungheria, prima di raggiungere Austria e poi Germania, dove oggi risiede insieme alla famiglia.
Yonas Kinde è invece un maratoneta etiope, rifugiato in Lussemburgo dal 2013. Come gli altri atleti selezionati nella squadra olimpica dei rifugiati, non sembra destinato a raggiungere il podio della sua disciplina sportiva: nella maratona di Francoforte che si è tenuta lo scorso anno, Kinde ha ottenuto appena il 29° posto, con un tempo di 2 ore, 17 minuti e 31 secondi; e a Rio sono dozzine gli atleti che possono vantare tempi al di sotto delle 2 ore e 10 minuti.
In ogni modo non può mancare l’auspicio di un lieto fine con il raggiungimento dell’agognata medaglia per qualcuno di questi giovani atleti, le cui storie nelle ultime settimane hanno già fatto il giro del mondo. Occhi aperti dunque alla cerimonia di inaugurazione dei Giochi, che prevede la sfilata della Squadra dei Rifugiati subito prima di quella dei padroni di casa, da scaletta a chiusura di questo primo momento festoso.
Le competizioni avranno inizio a breve.
Io tifo per i rifugiati. E voi?