Breve discorso sul nostro orrore quotidiano e sui compiti dell’ora
[Sintesi del discorso tenuto dal responsabile del “Centro di ricerca per la pace e i diritti umani”, Peppe Sini, la mattina di venerdì 15 luglio 2016 nel piazzale di Santa Barbara a Viterbo]
1. Ovunque è Hiroshima
In ogni luogo si può essere sterminati.
Esistono armi cui non si può sfuggire, e poteri assassini disposti ad usare quelle armi contro chiunque. L’umanità e unificata nel segno del dolore e della paura.
E questa violenza che dall’alto incombe su tutti, tutti contagia, e dagli eserciti passa alle milizie, dalle milizie alle mafie, e dai criminali ai reietti, dagli emarginati senza speranza alle persone fino a ieri integrate o equilibrate che un giorno il delirio offusca o la sventura abbatte e precipita nella sofferenza più inesorabile e nel rancore che null’altro desidera se non che altri soffrano anch’essi, che anche ad altri sia strappato ogni bene, e di ogni bene il fondamento: la nuda vita.
E questa violenza trova sempre un’ideologia, infinite ideologie, che la giustifichino, che la glorifichino; e che effettualmente inducono esseri umani oppressi e infelici, o illusi e avidi, a farsi assassini.
I poteri imperiali hanno le atomiche, i proiettili a uranio impoverito, il fosforo bianco, i droni, gli equipaggiamenti robotici. Ma basta un mitra, una pistola, una daga. O anche: un aereo, un camion, un coltello per tagliare il pane che alla bisogna anche le gole squarcia, le nude mani del marito e del fidanzato.
2. La guerra ha raggiunto le nostre città
Fino a ieri i nostri governi – ed i potentati economici di cui sono asservita espressione – compivano o commissionavano stragi altrove, ma strage dopo strage la piena del fiume di sangue ha rotto gli argini dilagando ovunque, il massacro sta arrivando nei nostri quartieri, nei nostri bar, nella redazione del giornale da ridere, nel locale del concerto pop, nel ristorante degli imprenditori, sulla passeggiata della festa, e alle stazioni dei treni, negli aeroporti, dinanzi agli stadi.
Questo terrorismo cellulare e artigianale che raggiunge le nostre città è il nostro terrorismo coloniale e imperiale che in un movimento pendolare ritorna e ci investe. Ne è il prodotto diretto. Pochi giorni fa i mass-media davano notizia dell’uccisione di uno dei principali capi dell’Isis, detto ”il ceceno”, ed aggiungevano con noncuranza che era stato addestrato dagli americani. La carriera di terrorista di Bin Laden iniziò in Afghanistan finanziata dagli Usa. La nascita dell’Isis e il suo radicamento territoriale (con la sua enorme efficacia in termini propagandistici, di reclutamento e di possibilità di addestramento e armamento) è conseguenza diretta delle nostre infamissime e scelleratissime guerre che hanno destrutturato l’Iraq, la Siria, la Libia.
3. Aprire gli occhi
Certo, noi vediamo solo le stragi che avvengono dove i nostri telefonini le riprendono, le nostre televisioni le trasmettono. E non vediamo il massacro quotidianamente eseguito dai nostri aerei, le nostre bombe, i nostri armamenti venduti ed usati nei continenti delle dittature e della fame, della schiavitù e della desertificazione, della rapina imperialista e razzista.
Certo, noi ci sentiamo il cuore spaccato quando muore un nostro concittadino, e non vediamo le innumerevoli vittime delle nostre guerre, che consentiamo che siano chiamate “missioni di pace”, che arricchiscono il “made in Italy” dei mercanti di morte, e neppure ci accorgiamo che i milioni di esseri umani in fuga dall’Africa e dall’Asia che muoiono nei lager turchi e libici, che muoiono nel braccio di mare tra l’Anatolia e Lesbo, che stanno colmando di cadaveri il Mediterraneo, sono i nostri governi a trucidarli, in una immane mattanza. L’orrore è tale che non lo percepiamo più.
4. Tornare a sentire, tornare a pensare
Questo dovremmo innanzitutto fare: tornare a sentire, tornare a pensare.
Tornare a pensare alla condizione umana nell’età atomica con Gunther Anders, tornare a pensare alle tre verità di Hiroshima di cui ci parlava Ernesto Balducci, tornare a pensare i nostri pensieri in dialogo con i pensieri di Mary Wollstonecraft, di Karl Marx, di Rosa Luxemburg, di Virginia Woolf, di Simone Weil, di Mohandas Gandhi, di Hannah Arendt, di Emmanuel Levinas, di Nelson Mandela, di Wangari Maathai, di Franca Ongaro Basaglia e di Luce Fabbri.
Riconoscere che ogni vittima ha il volto di Abele.
Riconoscere che vi è una sola umanità, che esiste nella pluralità di esseri umani tutti diversi e tutti eguali in dignità e diritti, tutti ugualmente bisognosi di aiuto, tutti ugualmente viventi in quest’unico mondo vivente casa comune dell’umanità, tutti ugualmente esposti al dolore e alla morte e quindi tutti in diritto di ricevere aiuto e tutti in dovere di recarlo altrui.
Opporsi alla guerra e a tutte le uccisioni. Giacché togliere la vita ad un essere umano (ovvero rapinarlo di quell’unico bene senza del quale nessun altro bene si dà) significa ed implica negare l’umanità di tutti e di ciascuno, anche la propria.
Opporsi al razzismo e a tutte le persecuzioni. Giacché negare la dignità umana di qualcuno significa ed implica estinguerla in tutti, innanzitutto in se stessi.
Opporsi al maschilismo e a tutte le oppressioni. Sapere che l’oppressione maschile che spacca in due l’umanità e pretende ridurre metà dell’umanità a servo e merce e cosa e possesso – e che così disumanizza l’umanità intera, nelle vittime e nei carnefici - è la prima radice e il primo paradigma di ogni violenza.
Opporsi al totalitarismo e alla schiavitù, opporsi alla violenza non solo nei confronti degli esseri umani, ma anche nei confronti degli altri esseri viventi e del mondo vivente tutto, quest’unico mondo vivente di cui siamo parte, quest’unico mondo vivente in cui possiamo vivere.
Ricordarsi di essere fallibili.
5. Cosa occorre fare subito
Abolire le armi.
Abolire gli eserciti.
Soccorrere, accogliere, assistere tutte le persone bisognose di aiuto.
Nei luoghi della sofferenza recare aiuti umanitari: tutto è interconnesso, tutto è interdipendente.
Del sapere e della tecnica fare uso non più per opprimere e rapinare e asservire altri, ma per recare assistenza e giovamento.
Educare al rispetto di sé e quindi al riconoscimento degli altri e quindi alla riconoscenza per gli altri, all’empatia ed alla responsabilità. Educare alla consapevolezza che la civiltà umana è un cammino unitario e un compito comune, che l’umanità è plurale e una, che ogni persona deve sentirsi responsabile di tutto.
Avere sempre come primo criterio di giudizio la libertà delle donne: dove sono negati, misconosciuti o violati i diritti umani delle donne, lì è già il fascismo.
Riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di muoversi su quest’unico mondo casa comune.
Prendere le decisioni che tutti riguardano sempre e solo col consenso di tutte le persone coinvolte.
Tutto ciò può esser detto con una sola parola: nonviolenza.
6. Solo la nonviolenza può salvare l’umanità
Chiamiamo nonviolenza la lotta che a tutte le violenze si oppone ed opera in modo concreto e coerente affinché tutte le vite siano riconosciute, difese, salvate.
Chiamiamo nonviolenza la lotta delle oppresse e degli oppressi per la liberazione comune dell’umanità e la preservazione della biosfera.
Chiamiamo nonviolenza la consapevolezza che solo facendo il bene ci si può opporre al male, solo salvando le vite si contrasta la morte, solo agendo umanamente si resta umani.
Trattare l’umanità con umanità: tu sei il prossimo del tuo prossimo.
Questa è la politica necessaria, la sola politica adeguata alla tragica ora presente dell’umanità.
Questo è l’unico modo per non dimenticare tutte le vittime.
Rispetto per la vita, forza della verità, amore per il mondo: solo la nonviolenza può salvare l’umanità dalla catastrofe.
Peppe Sini, responsabile del “Centro di ricerca per la pace e i diritti umani” di Viterbo
Viterbo, 15 luglio 2016