E’ già sparita dai mezzi di informazione italiani la notizia degli esiti della Commissione d’inchiesta britannica guidata da John Chilcot che, dopo sette anni di lavoro, ha accusato Tony Blair di aver voluto a tutti i costi – in combutta con George W. Bush – l’nvasione dell’Iraq, a partire da “prove” niente affatto certe e giustificate sul possesso di armi di distruzione di massa da parte del governo iracheno. Guerra che – in ogni caso – “non era l’ultima risorsa” possibile per convincere Saddam Hussein ad uscire di scena e, oltre ad aver ucciso “almeno centocinquantamila iracheni – e probabilmente molti di più – la maggior parte dei quali civili” (altre fonti indipendenti parlano di 500 mila), ha destabilizzato l’intera area, aumentando direttamente la minaccia terrorista, anche attraverso il trasferimento di armi nelle mani dei gruppi armati.
Dopo tanti anni, oggi il vice di Blair di allora, John Prescott, aggiunge anche che fu una guerra “illegale”. Una guerra il cui costo economico complessivo è stato calcolato dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz in 3496 miliardi di dollari! Il Rapporto Chilcot, in 12 volumi, andrà letto e studiato con cura, perché contiene la contro-narrazione di un passaggio cruciale della nostra storia recente – dentro i cui effetti nefasti siamo ancora immersi – che mostra come funziona, effettivamente, il “complesso militare, industriale e politico” internazionale. Che prende le decisioni fondamentali sulla pace e la guerra al posto dei cittadini, ingannandoli.
Del resto, il primo a mettere in guardia rispetto al potere di ingerenza nelle democrazie da parte del“complesso militare-industriale e politico”(coniandone anche la locuzione) è stato qualcuno che lo conosceva bene, Dwight Eisenhower, in quanto generale prima e presidente degli Stati Uniti dopo, il quale il 17 gennaio 1961, nel suo discorso d’addio alla nazione, diceva: “questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari ed un’enorme industria di armamenti è nuovo nell’esperienza americana. L’influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità; viene sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Noi riconosciamo il bisogno imperativo di questo sviluppo. Ma tuttavia non dobbiamo mancare di comprendere le sue gravi implicazioni. La nostra filosofia ed etica, le nostre risorse ed il nostro stile di vita vengono coinvolti; la struttura portante della nostra società. Nei concili di governo, dobbiamo guardarci le spalle contro l’acquisizione di influenze che non danno garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l’enorme macchina industriale e militare di difesa ed i nostri metodi pacifici ed obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme”
Nel 2002-2003, mentre i governi occidentali (tranne la Francia) abbracciavano, uno dopo l’altro, la narrazione costruita dalla coppia Bush e Blair e si intruppavano nella “coalizione dei volenterosi” per l’aggressione all’Iraq, fornendo truppe e/o assistenza logistica – pronti a sedersi presto al tavolo dei vincitori per la spartizione delle risorse petrolifere – milioni di “cittadini allerta” li contestavano nelle principali piazze del pianeta, con le stesse motivazioni espresse oggi dal rapporto Chilcot – ma prima che la catastrofe avesse inizio – cercando inutilmente di fermarli. Il tentativo di contrasto a quella folle avventura bellica è stato anche il momento più “forte” del movimento contro la guerra, che ha visto più di cento milioni di persone contemporaneamente in piazza in molte capitali del mondo, ma è stato anche il momento in cui esso ha mostrato la sua fragilità: nessun cacciabombardiere è stato fermato, le masse di manifestanti si sono man mano dileguate e le guerre e il terrore hanno dilagato nello spazio e nel tempo. Oggi il pianeta è in fiamme, la corsa agli armamenti – che ha ripreso a correre, dopo l’11 settembre 2001, con le invasioni di Afghanistan e Iraq – ai suoi massimi storici, ed il “complesso militare-industriale internazionale e politico” mai così potente e capace di influenzare bilanci degli Stati e scelte belliche dei governi.
“L’incubo del triangolo non è perciò scomparso con la denuncia di Eisenhower e neppure con la fine della Guerra Fredda. I suoi componenti sono stati i diretti responsabili di molte scelte politiche, avventure militari, arroganze industriali e fallimenti economici. Non c’è paese della Nato che possa dichiararsi esente dal fenomeno”, scriveva il generale Fabio Mini – un altro che se ne intende – nel 2013 (La guerra spiegata a…, Einaudi). Per questo è necessario che i “cittadini allerta”, dal basso, organizzandosi, ne costituiscano la resistenza e ne costruiscano gli anticorpi. Come abbiamo innumerevoli volte sperimentato, non sono le manifestazioni reattive alle guerre – per quanto imponenti – a poter distogliere il complesso militare-industriale e politico dai suoi intenti, ma la capacità proattiva e tenace di de-costruire le narrazioni belliche e ingannevoli della violenza culturale, costruendo narrazioni alternative; di operare per il disarmo militare e la riconversione dell’industria bellica, per costruire un’economia civile di pace, anziché di guerra; di preparare le alternative non armate e nonviolente di intervento nei conflitti internazionali, come propone la campagna Un’altra difesa è possibile.
Ancora una volta, il rapporto Chilcot ci dice che i temi della pace e della guerra sono questioni troppo serie, non solo da lasciare in mano ai generali (come nella celebre battuta di Clemencau), ma anche da lasciare in mano ai governi, cioè al complesso militare-industriale e politico. Oggi più che mai.
Pasquale Pugliese