L’appuntamento è ad ottobre, ma è già evidente che rischia di assomigliare alla “sfida all’O.K. Corral”, la sanguinosa e leggendaria sparatoria che avvenne nel 1881 in un saloon di Tombstone, in Arizona, proprio nel mese di ottobre. I toni del confronto in vista del referendum sulla revisione della Costituzione sono già così forti da porre in secondo piano la campagna elettorale per le amministrative di giugno. D’altra parte è stato il Presidente del Consiglio dei Ministri – per primo – ad alzare la posta in gioco, anzi, a puntare tutto sul referendum, come se fosse l’ultima mano di un poker, in cui si mette tutto quello che si ha sul piatto. Poi rimane soltanto il duello, in cui di solito sopravvive chi spara per primo.
Detto questo forse è già detto tutto. Sì, perché la Costituzione dovrebbe essere una Carta che unisce, un patto di cittadinanza condiviso, un punto di riferimento per tutti. L’Assemblea Costituente è stata la prova di una straordinaria convergenza tra (molto) diversi, che si sono riconosciuti in una prospettiva comune. La Costituzione fu promulgata con oltre il 90% dei consensi e l’Ordine del giorno, presentato da Aldo Moro per promuovere l’insegnamento della Carta nelle scuole “di ogni ordine e grado”, fu approvato all’unanimità, cioè anche con il voto di chi – pur non sottoscrivendo il testo elaborato – riconosceva la necessità di una pedagogia costituzionale. Anche chi dissentì nel merito, si sentì unito nel metodo e nel senso che una Costituzione porta con sé.
Settanta anni dopo questa cultura del confronto e della condivisione sembra completamente evaporata. La Costituzione non è più terreno comune, ma è diventata oggetto (più o meno strumentale) di una divisione profonda. La revisione della Carta è stata promossa da chi oggi sta al potere e viene contrastata da chi oggi sta all’opposizione. Non solo: la scelta di una revisione così ampia è divisiva anche all’interno del partito di maggioranza relativa, con continui conflitti tra le diverse componenti. Di conseguenza si è travisata la Costituzione, nel modo peggiore, trasformandola nell’oggetto del contendere politico quotidiano. Stiamo assistendo ad uno “spettacolo” che non avremmo mai voluto vedere: le squadre in campo anziché giocare la propria partita, si sono messe a contestare o ad allearsi con l’arbitro con lo scopo deliberato di cambiare le regole del gioco a proprio vantaggio. Vale per la legge elettorale come per la Costituzione.
Quando, passato il mese di ottobre, ci saranno vinti e vincitori, ma sulle spoglie di una Costituzione comunque lacerata o disconosciuta, ci dovremo chiedere se non sia stata una follia questa sfida all’ultima pallottola, che avrà lasciato sicuramente una scia di devastazione, che avrà creato fronti contrapposti proprio davanti a ciò che era stato creato per garantire e promuovere il dialogo e la collaborazione. Chi ci sta portando su questa strada potrà uscirne anche vincitore, ma facilmente susciterà il rancore dei vinti. Quei vinti che presumibilmente approfitteranno della prima occasione per prendersi la rivincita e ribaltare tutto. In passato abbiamo già udito la voce di chi dichiarò che non avrebbe “fatto prigionieri”, qualora avesse conquistato la maggioranza. Il rischio è poi quello di poter anche “prendere lo scalpo” della Costituzione. Quando si promuove lo scontro per cambiare le regole, senza condivisione, si rischia sempre di avviare una reazione a catena senza fine.
Se pensiamo che le Costituzioni nascono proprio per porre limiti al potere e alla tendenza all’abuso, che ogni potere annida dentro di sé, viene da pensare che così facendo stiamo davvero tradendo lo spirito costituzionale. La “Grande Legge” della confederazione degli Irochesi, un popolo nativo del continente americano, stabiliva che per ogni scelta si deve considerare l’impatto “sulle prossime sette generazioni”. I cosiddetti “indiani” si sono dimostrati saggi come i padri costituenti riunitisi a Filadelfia per scrivere la Costituzione americana. Invece oggi l’Italia sta finendo per assomigliare sempre di più a quel saloon dell’Arizona, in cui si è fatto spettacolo, ma che nella storia non ha portato nulla di buono.
Come scriveva James Freeman Clarke “un politico pensa alle prossime elezioni, un uomo di Stato alle prossime generazioni”. Verrebbe da dire che abbiamo molti politici e pochi uomini. È imperdonabile l’errore di chi ci ha condotto dentro questo scontro frontale “con un cannone nel cortile”, per dirla con De André. Resta da domandarci come è stato possibile ridurci a questo. Piero Calamandrei dubitava che saremmo stati in grado di realizzare il programma costituzionale. Oggi dobbiamo dargli ragione: non siamo stati capaci di attuare la Costituzione e soprattutto di interiorizzarne lo spirito. Diamoci almeno un compito semplice: salvaguardarla, perché il futuro resti un orizzonte aperto. È l’unica freccia che ci è rimasta.