La lotta al terrorismo (“islamista”, non “islamico”), che oggi monopolizza l’attenzione dei media, è un impegno da non sottovalutare: anche il movimento per la pace deve dare la sua risposta. Ma è veramente il problema dei problemi? Persino il presidente USA Obama è arrivato a dichiarare che il riscaldamento climatico, per la sicurezza nazionale, è questione più grave dell’ISIS. Il riscaldamento climatico, se non lo si contiene entro i limiti decisi a Parigi, va ad annullare la civiltà umana; così la guerra nucleare, praticamente sicura se non si abolisce la “deterrenza”, significa garanzia di autodistruzione della specie.
Il summit COP21 di Parigi, svoltosi nel dicembre 2015, ha deciso all’unanimità (195 Paesi su 195) un accordo tra gli Stati ONU per la transizione ad un nuovo modello di sviluppo fondato sulla conversione ecologica e energetica con le alternative ai combustibili fossili e al nucleare.
La società – lo dice dall’alto il consesso dei governi di Parigi – si difende solo cambiandola; ma nel volere trasformare dal basso la società non dobbiamo avere una visione specialistica, settoriale, della realtà, cioè essere ecologisti specialisti, pacifisti specialisti; è essenziale farsi portatori di un approccio globale, come in parte ha tentato di proporre, sempre a Parigi, il “movimento per la giustizia climatica”, influenzato dalle idee e dagli appelli di Stéphane Hessel.
Infatti la conversione energetica è a fondamento di politiche “strutturali” di pace, per cui si deve orientare l’impegno e l’attivismo ecopacifista e nonviolento a un obiettivo comune: la risoluzione della minaccia climatica, che è la seconda in ordine di priorità rispetto alle tre spade di Damocle che pendono sulla testa di tutti.
Elenchiamole in ordine di importanza, dal punto di vista dell’ovvio (e riconosciuto istituzionalmente) criterio del rispetto della “sacralità” della vita, di ciascuno e di tutti:
1) la guerra nucleare, che può uccidere istantaneamente tutti;
2) il collasso climatico che ottiene lo sterminio universale in 100 anni;
3) il crollo finanziario ed economico di un sistema costruito per l’1%, che fa strage di moltitudini e può determinare regressioni sanguinose di civiltà.
Lo scontro di potenza, le crisi ecologiche, la competizione nella accumulazione economica sono processi che interagiscono e che provocano un aggravamento delle situazioni sia ambientali che sociali, nonché delle guerre e della tendenza a passare dai “pezzetti di guerra” ad una guerra mondiale unica.
È necessario focalizzare le energie di chi vuole pace e giustizia sulla “forza della verità” (la definizione gandhiana di nonviolenza) e dei problemi reali e dei fatti attuali concreti, non sulle ideologie e i problemi identitari. Prima l’umanità! è la parola d’ordine che deve caratterizzarci. Prima l’umanità e non prima la sovranità territoriale (più o meno ampia – nazionale o regionale – e più o meno autogestita).
Prima le persone che cercano la salvezza dalle guerre e dalla miseria che l’1% degli straricchi ha fomentato (con l’aiuto del 10% dei loro “maggiordomi”): al macero le illusioni che costruendo muri e presidiando militarmente confini ci si possa, da disagiati che temono per il proprio futuro, riparare dalla concorrenza dei più poveri “che vengono a rubarci il lavoro, la casa, le donne”.
Dobbiamo costruire ponti, non muri! Era il motto di Alex Langer ripreso da Papa Bergoglio nella sua ultima enciclica.
L’avvenire dell’Umanità non è nella competizione, nella accumulazione concorrenziale dettata dalla paura, ma nella cooperazione, nell’aiuto reciproco basato sulla fiducia, ci ammonisce Stéphane Hessel in “ESIGETE! il disarmo nucleare totale”.
Dobbiamo unirci sul tema della conversione ecologica stabilita negli accordi della COP21 a Parigi per il bene della comunità globale, di tutti popoli, di tutte le persone, passate, presenti e future, per uscire dal modello energetico basato sui combustibili fossili, sul carbone, sulla produzione di acciaio e sull’energia nucleare.
La grande massa dei popoli che vuole la pace è la nostra speranza; il metodo del dialogo per la pace è la nostra via; la pace è la via per la giustizia, non c’è giustizia senza pace; ma certamente non è possibile la “riappacificazione”, la “riconciliazione” con il nazifascismo e con tutte le dittature, perché non si può logicamente ammettere la libertà di schiacciare le libertà. La grande massa dei popoli è pacifica e compito di chi vuole la pace è quello di non soffiare sullo “scontro di civiltà”; quindi dobbiamo isolare chi addita capri espiatori, come i migranti, i rom con la conseguente paura, la ghettizzazione e la degenerazione in xenofobia e razzismo.
La riflessione è pensiero che cerca in profondità e nasce dal confronto collettivo sui dati reali. Nel pensiero contemporaneo, che è per lo più visione contingente e ripresa acritica di luoghi comuni dell’Ottocento, e non vera riflessione, subentra molta confusione che non vede la contraddizione tra concetti vecchi e nuovi, ma affastella insieme le idee contrastanti se non addirittura antitetiche. Infatti l’obiettivo del confronto collettivo è stimolare la maturazione dell’interlocutore e non aggredire e demonizzare le persone. Nel dialogo aperto a tutti gli individui (e non con le ideologie e i comportamenti totalitari) si cerca di trasformare, di recuperare, non di marchiare le persone crocifiggendole sui loro errori passati.
Il popolo, non l’avanguardia militante, deve isolare il fascismo e mettere fuori legge i vari gruppi fascisti. Per l’élite dell’1%, per i poteri forti, per le multinazionali, lo scontro tra fascismo violento e antifascismo “violentista” (l’estremismo è la malattia infantile dell’antifascismo) è un gioco, è una strategia, per fomentare la disomogeneità e il disaccordo delle masse. È necessario impegnarsi per una vittoria strutturale e definitiva contro il fascismo, non giocare a vincere episodiche “disfide di Barletta” tra centri sociali di “antifa” e centri sociali “neri”.
Con l’ideologia nazifascista non ci si riconcilia, ma con il singolo individuo che proclama la simpatia verso il fascismo, esercitando discernimento, si può parlare, trattare, agevolare e attuare un cambiamento sostanziale. Chi vuole stimolare processi di maturazione e sviluppo democratico vuol far riflettere le persone, anche se una repubblica democratica non deve dare cittadinanza LEGALE alle forze organizzate che lavorano per i disvalori della razza, della gerarchia autoritaria, della sopraffazione, contro la democrazia. La campagna generale e preventiva per la democrazia, con la messa fuori legge delle forze che democratiche non sono per loro esplicita ammissione, non la caccia militare agli “antidemocratici”, è l’elemento di maturazione del popolo, tramite i principi della partecipazione politica riconosciuti e vissuti. Molti antifascisti a parole praticano – lo abbiamo già richiamato – culture violentiste (le volanti “rosse” che inseguono le squadre “nere”) comunque differenti da quelle fasciste di sopraffazione. Nell’ideologia fascista viene strutturalmente data la disuguaglianza tra gli uomini; mentre la cultura di sinistra, per quello che ne resta, parte dal principio di eguaglianza, ma, se si adotta la violenza, questa pratica condurrà a situazioni di disuguaglianza. Secondo Norberto Bobbio ciò che distingue la destra dalla sinistra è appunto il valore dell’uguaglianza. La disuguaglianza tra uomini e superuomini proclamata dalla destra fascistoide include il principio di differenza razziale e inferiorità di genere e altre categorie discriminatorie. Si deve criticare il violentismo sia di destra sia di sinistra, però partendo dalla consapevolezza che i “compagni che sbagliano”, da contrastare senza omertà se “sbagliano” troppo, sono più facilmente recuperabili alle pratiche democratiche. La strategia di una società di liberi ed eguali non considera un atteggiamento positivo etichettare il prossimo, inchiodarlo ad una identità stereotipata. L’interventismo antifascista di sinistra dovrebbe rifarsi al principio di uguaglianza, di democrazia, di libertà dell’individuo, ma il violentismo di qualsiasi fazione non porta al valore dell’uguaglianza. Dal punto di vista della nonviolenza pragmatica, è ammessa la violenza organizzata solo in casi estremi come la resistenza partigiana antifascista rispetto a un avversario che rappresenta la brutalità assoluta, che non si limita a volere dominare, ma punta programmaticamente e concretamente a sterminare il suo nemico. Deve affermarsi e radicarsi una consapevolezza generale di valori profondi democratici e non si può quindi concedere libertà LEGALE ai comportamenti e alle organizzazioni che non concedono libertà. E qui l’antifascismo trova la sua ragion d’essere: non è organizzazione di interventi militari contro i “fascisti” ma educazione del popolo ai valori ed alle pratiche democratiche che sono l’anima della Costituzione nata dalla Resistenza.
L’antifascismo che ha dato origine alle costituzioni europee è stato anche l’ispiratore della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, che è il progetto di una società della pace, una società internazionale regolata dalla forza del diritto e dei diritti, non dal diritto della forza.
Questo progetto costituente mondiale possiamo completarlo con la Dichiarazione dei diritti dell’Umanità, che deve codificare il disarmo nucleare come diritto oltre la semplice necessità oggi ammessa da tutti.
La necessità è una situazione che tutti sono teoricamente d’accordo ad affrontare, ma senza obblighi. Invece se la proibizione delle armi nucleari è stabilita dal punto di vista giuridico diventa un diritto, ossia una regola; e la violazione della regola diventa reato, un crimine. La deterrenza militare nucleare viola allora un diritto. Tutti i capi delle nazioni che possiedono il nucleare diventano processabili. Per questo il disarmo nucleare deve essere inserito come diritto nella carta dei diritti dell’umanità. Un diritto non si chiede ma, appunto, come ci sprona Hessel, si “Esige”.
Sono queste concezioni che ci hanno portato a redigere la “Dichiarazione di Villarfocchiardo” del 26 settembre 2015:
“Noi, cittadine e cittadini del mondo appartenenti alla famiglia umana, responsabili della custodia della Madre Terra, l’unico pianeta cui apparteniamo, che abitiamo e che amiamo
Riaffermando che il principale scopo delle Nazioni Unite è il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale,
Ricordando i principi fondamentali della legge internazionale definiti nella Carta delle Nazioni Unite,
1. ci assumiamo il compito di annunciare una verità che a noi appare evidente ed inoppugnabile: la difesa del diritto alla sopravvivenza dell’intera umanità e la promozione della sua attuazione costituiscono un obbligo fondamentale per ogni Stato e per la comunità organizzata degli Stati;
2. indichiamo agli Stati, a tutti gli Stati, il dovere di assicurare la sopravvivenza dell’umanità, oltre che attraverso politiche di salvaguardia dell’ecosistema globale, soprattutto mediante l’urgente e prioritaria eliminazione della minaccia di guerra, in particolare della guerra nucleare, che esige l’immediato disarmo nucleare totale collegato all’abolizione giuridica degli armamenti nucleari.
Si può capire da questa Dichiarazione che stiamo lavorando per un progetto di conversione globale della società, per una Internazionale della Umanità che persegua la cultura della pace del XXI Secolo.
Tra i cardini di questa cultura indichiamo il rifiuto dell’economicismo in ogni sua declinazione: è la democrazia dell’Umanità con i suoi valori ed i suoi fini che deve conformare l’economia rivolta alle persone affratellate e non alla smania di accumulazione dei singoli.
Sì, la “ricchezza” è il nostro pianeta, ed è la responsabilità di tutti nel preservarlo, non l’economicismo del lavoro umano, invenzione di Adam Smith ripresa anche dai critici del capitalismo, che non riconosce il lavoro della Natura.
Occorre ricalibrare l’economia in rapporto alla Madre Terra, superando tutte le ideologie di origine ottocentesca, che – ed il marxismo delle versioni correnti non fa eccezione – hanno un’idea statica e passiva della natura. Dall’umanesimo al rinascimento all’illuminismo, e al vetero-marxismo, dall’uomo nullità, assolutamente subordinato alla divinità, si passa dalla dignità e all’autonomia dell’Uomo (maschio) fino ad accentuare la diversità dalla natura. Si pensi che secondo Gramsci, l’uomo è solo storia, cultura prodotta dalla storia (il marxismo come “storicismo assoluto”) e secondo Trotzki la natura va rimodellata a piacere secondo l’immagine ed il progetto umano. Lo sviluppo della cultura umana transita dallo stato “antico”, fino al Medio Evo, di soggezione alla riscoperta “moderna”, dall’Umanesimo in poi, della forza dell’uomo sulla natura fino all’esagerazione dell’uomo collocato come dominatore, padrone “esterno” ed assoluto. Ma l’uomo – oggi la consapevolezza del limite e la coscienza ecologica ce lo insegnano – non è separato e diverso dalla natura e la nostra storia si inserisce nei cicli naturali. Questo ormai lo abbiamo capito tutti, lo leggiamo nelle dichiarazioni dell’ONU: eppure non siamo conseguenti quando riproponiamo inconsapevolmente delle idee che partono da presupposti opposti. Non solo il pensiero marxista dogmatico, quello che poi si è inverato nel “socialismo reale”, ma tutte le ideologie del Novecento non hanno consapevolezza dei limiti dell’uomo e del pianeta, puntando sul progresso e sulla crescita illimitata. Gli equilibri naturali e le risorse vengono oltraggiati a favore dell’abbondanza immediata, distruggendo il pianeta con l’inquinamento e con lo spreco, in un atteggiamento di ignoranza, di irresponsabilità e di assurdità. Viviamo in un assurdo “antropocene” dove avviene lo sfruttamento scriteriato delle risorse vive e vitali della Natura. La vera cultura tutela il pianeta per evitarne l’estinzione degli ecosistemi. Essere contro il sistema, che danza sull’orlo dell’abisso, significa vincere questa sfida del rimettere gli esseri umani, donne e uomini, con i piedi per terra, riconciliandoli con la Terra tramite una cultura democratica generale, una cultura della democrazia che ha posto sotto controllo l’economia dell’accumulazione illimitata.
È urgente uscire dal sistema energetico fondato sui combustibili fossili, sulla produzione d’acciaio e sul nucleare proponendosi come attivisti e disarmisti esigenti, rappresentanti di una volontà universale e codificata, da cui occorre partire, non esprimendo solo se stessi, nel processo egoico e individualista della personalità alla ricerca dell’autosufficienza e dell’accumulazione. L’individualismo borghese ha visto delle linee estreme con Margaret Tatcher, per la quale la società non esiste, ma esistono solo gli individui, secondo il pensiero unico liberista: ognuno è per sé e la società non esiste.
Al primo posto è – ripetiamolo – l’umanità con il suo bene comune, ma non bisogna dimenticare le singole identità collettive, ed anche i singoli individui, che hanno da essere doverosamente impegnati nel “conosci te stesso”. Quanto più si cerca di scavare dentro l’autenticità di se stessi, tanto più si scopre l’universale umano che permea tutte le persone, diverse ma simili. L’introspezione che sonda il profondo e fa silenzio sul rumore contingente della cronaca e dell’apparenza porta alle verità che valgono per tutti gli esseri umani. Riflettere è un processo del pensiero di validità generale e non è per niente affatto individualismo. Il profondo interiore portato a consapevolezza diventa l’essenza dell’uomo e della donna rappresentati dalla comune umanità. L’interiorità nelle sue strutture profonde è di tutti ed è comune con gli altri uomini simili e uguali, ed è antidoto necessario all’ esteriorità, all’effimero, al contingente, al superficiale.
L’obiezione antimilitarista che nasce da una assunzione di responsabilità personale non è una scelta individualistica, ma poggia le sue radici sul concetto di individuo dotato di “coscienza”, in quanto valore del singolo, differente dall’individualismo. La società giusta valorizza ogni singolo come fine e non mezzo. Tutti siamo un fine e nessuno deve essere strumentalizzato. Il rapporto tra individuo e collettivo va rivisto, in quanto l’individuo è sociale, è fine della società e non deve essere strumentalizzato (Cfr. Kant). Dunque è necessario trovare nuove forme di pensiero e di espressione che non comportino il reiterarsi degli orrori della storia, che ha contrapposto l’individuo alla società così come ha contrapposto l’uomo alla Natura. Le nuove destre prendono spunti dalla sinistra “rintontita” nello slogan identitario e territorialistico, per esempio: prima i francesi, prima i padani eccetera. Noi diciamo: prima l’Umanità che è tutt’uno con il dire prima le persone. Prima l’Umanità, quindi i diritti delle persone; successivamente le identità collettive, i popoli, i territori, la sovranità, che vogliamo relativizzare, cui vogliamo porre dei limiti e dei vincoli di diritto e nel diritto.
Territorio: se risaliamo all’origine antica, latina, della parola, scopriamo che essa deriva non da “terra”, come si sarebbe portati a pensare, ma da “terrore”, perché indicava l’estensione che ricade sotto l’atto di esercitare il potere che è facoltà di produrre la paura dispensando la morte. Ed ecco che a “territorio” si riconnette l’idea di Stato, cioè l’organizzazione politica del comando che impone la sua legge entro uno spazio delimitato, confinato.
Il problema dell’autogestione territoriale è che, fuori dal quadro culturale del nuovo internazionalismo, rischia la chiusura localistica, persino nazionalistica, mentre la realtà è sconfinata, ha problemi globali, interconnessi, universali. E’ il caso di citare ancora le tre spade di Damocle che minacciano la vita dell’Umanità intera? Il referendum sulle concessioni petrolifere del 17 aprile 2016, ad esempio, prevede la difesa delle nostre coste, ma lascia trivellare nelle coste altrui, nei territori in guerra. Se non si amplia il discorso e l’intervento (il petrolio deve rimanere sotto terra ovunque, altro che invasioni della Libia! ed ovunque il trasporto collettivo deve prevalere su quello privato) il Mediterraneo che si vorrebbe salvare finisce lo stesso per evaporare! Per questo la gestione delle burocrazie regionali, infide come tutto il vecchio ceto politico italiano, presenta il rischio di una chiusura territoriale e di una polemica sulle competenze (le regioni contro lo Stato centrale) che non rimanda a progetti ed interventi realmente risolutivi. Lo slogan dei No TRIV, del comitato locale che si ribella e difende il proprio territorio è l’autogestione del territorio stesso, mentre lo slogan del nuovo attivismo per la pace ed il disarmo – ripetiamolo ancora che giova – si basa sul concetto più ampio e esteso di “nuova internazionale dell’umanità”, per non chiudersi nel localistico, partendo invece dall’universale, dal globale, dal mondo. Non ce ne vogliano tanti amici, ma sostituire la “coscienza di classe” con la “coscienza di luogo” proprio non sta in piedi. Pensare globalmente, agire localmente, coordinati internazionalmente: questa è la formula che consigliamo a chi ha capito che oggi, al tempo della Rete, del villaggio globale comunicativo, il mondo non funziona più – e non deve funzionare più – per spazi confinati.