“Il referendum costituzionale non è lo spartiacque sul futuro di un presidente del Consiglio, ma è lo spartiacque per capire se il Paese è governabile o no”. Così ha recentemente dichiarato Matteo Renzi ai giovani imprenditori di Confindustria. Se da un alto Renzi ha provato a correggere l’errore di aver associato la sua carriera politica alla sorte del referendum costituzionale (forse anche perché i sondaggi non sono più così positivi come alcuni mesi fa), dall’altro ha aggiunto ulteriore enfasi e incertezza al voto del prossimo ottobre. Che cosa c’entra la governabilità con la revisione della Costituzione? Nella dichiarazione di Renzi non c’è logica: se la governabilità del Paese dipendesse dall’approvazione della riforma, dovremmo concludere che in questi ultimi anni l’Italia è stata ingovernabile. E che lo è anche adesso, con il Governo Renzi in carica. Se così fosse, Matteo Renzi dovrebbe dimettersi immediatamente, vista l’impossibilità a governare. Se invece l’Italia è attualmente governabile e governata, non si capisce perché, nel caso in cui in autunno la revisione venisse bocciata dagli elettori e di conseguenza restasse valida la Costituzione vigente, dovrebbe diventare in quel momento ingovernabile. L’impressione è che Renzi, per cercare di rimediare ad un errore, ne abbia commesso uno più grande: dal referendum ha cercato di scollegare la propria vicenda personale, ma ha agganciato addirittura il futuro del Paese. Inizialmente il senso era: “con il NO al referendum, mi ritiro e quindi cadrà questo Governo”. Adesso il senso è: “con il NO al referendum, nessuno riuscirà più a governare”. Che in altre parole significa: “dopo di me il caos o – visto che in questi giorni piove molto – il diluvio”.
Questa spinta apocalittica impressa da Matteo Renzi non giova sicuramente ad aprire un confronto nel merito della proposta di revisione costituzionale, poiché tutto viene compresso tra un pro o un contro nei confronti di un leader politico o addirittura della governabilità di una nazione. In questa evidente forzatura e strumentalizzazione della tematica costituzionale per altri scopi, in fondo si può leggere un tradimento dello spirito dei Costituenti. L’elaborazione delle regole della comune convivenza è storicamente nata da un confronto leale e approfondito tra le diverse parti politiche. I Costituenti hanno fatto molta attenzione a tener ben distinto il piano della dialettica politica contingente (tra maggioranza e opposizione parlamentare) da quello delle commissioni in cui si dava forma e contenuto alla Legge fondamentale. Oggi assistiamo ad una deliberata scelta di andare nel senso opposto, in cui si legano strettamente e indissolubilmente le sorti del Governo e/o del Paese ad una determinata impostazione costituzionale in opposizione a quella vigente. Di fatti si è imboccato un vicolo cieco in una strada sempre più stretta, che avrà sicuramente almeno un esito negativo: aver ridotto la Costituzione ad una campo di battaglia. Mentre invece, come ha scritto nel 1995 Giuseppe Dossetti, “è proprio nei momenti di confusione o di transizione indistinta che le Costituzioni adempiono la più vera loro funzione: cioè quella di essere per tutti punto di riferimento e di chiarimento”.
In questa discutibile contesa finora è rimasto abbastanza defilato Sergio Mattarella. Scelta saggia per almeno due ragioni. Anzitutto perché il Presidente della Repubblica è il primo custode della Costituzione vigente e sicuramente non può schierarsi a favore o contro una sua eventuale modifica. E poi perché dovrà gestire la fase successiva all’esito del voto, che paradossalmente potrebbe essere più complessa proprio se la Costituzione non verrà cambiata. Infatti, se la Costituzione resterà invariata da più parti si prefigura un significativo cambiamento politico, con le possibili dimissioni del Governo. Questo evento però non sarebbe necessariamente un sinonimo di ingovernabilità, ma rientrerebbe nella normale prassi istituzionale. Molto probabilmente in tale situazione il Presidente Mattarella rinvierebbe il Governo alle Camere per verificare la sussistenza (o meno) della fiducia del Parlamento. In caso negativo non sarebbe automatico andare a nuove elezioni, come spesso invece richiedono i governanti che decadono, ma spetterebbe al Presidente della Repubblica dare incarichi per verificare se sia possibile costituire una maggioranza parlamentare. Soltanto dopo aver esplorato questa possibilità ed eventualmente constatato l’inesistenza di una maggioranza, a Mattarella non resterebbe che lo scioglimento del Parlamento. O forse, invece, per la prima volta nella storia della Repubblica, si potrebbe arrivare allo scioglimento soltanto della Camera dei Deputati. Non può sfuggire, infatti, che una conferma referendaria della Costituzione vigente da parte del popolo, risulterebbe anzitutto come una riconferma dell’attuale Senato, oggetto di un cambiamento bocciato nelle urne. A maggior ragione che, per il Senato, il Parlamento non ha approvato una nuova legge elettorale, come auspicato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014 che ha annullato alcune parti della legge elettorale precedente, il cosiddetto “porcellum”. Infatti, l’attuale Parlamento, su spinta del Governo, ha approvato soltanto una nuova legge elettorale riguardante la Camera dei Deputati, il cosiddetto “italicum”.
In ogni caso è evidente che, in caso di sconfitta del progetto di revisione della Costituzione, il ruolo del Presidente della Repubblica sarà molto delicato e determinante. Non si può nascondere la problematicità della situazione, ma è assurdo che a segnalarla e a paventarla sia il Governo, che di fatto ha costruito tutte le condizioni affinché si creasse tale difficoltà. E qui torniamo all’inizio: se la Costituzione fosse stata lasciata fuori dalla contesa politica quotidiana, non vi sarebbero ombre sul dopo referendum. Chi da due anni sta “strattonando” le regole del gioco (Costituzione e legge elettorale) non è credibile oggi quando sostiene che – se non fosse appoggiata la propria proposta – in futuro dovremo attenderci in caos. È opportuno ricordare che questo progetto di revisione costituzionale è stato approvato in ultima lettura il 12 aprile 2016 nell’aula della Camera con la presenza di 370 deputati su 630 aventi diritto. Tutte le opposizioni erano fuori dal Parlamento e al varo della riforma erano presenti soltanto gli appartenenti ai gruppi di maggioranza. Comunque la si pensi, se queste sono le premesse, di certo non si può andare molto lontano. A maggior ragione quando si tratta della Costituzione, la Carta che più dovrebbe stare a cuore a tutti i cittadini.