Lunedì 23 maggio l’Austria si è svegliata senza conoscere il nome del suo nuovo presidente. Data la sostanziale parità dei due candidati designati al ballottaggio nello scrutinio di domenica sera, il risultato è stato deciso dai voti espressi dai cittadini austriaci per corrispondenza: i circa 900mila voti, pari al 14% del totale, dei residenti all’estero e di quanti il giorno delle elezioni non si sarebbero trovati nel loro comune di residenza. Scrutinati solo nel corso della giornata di lunedì, i voti per posta hanno conferito la vittoria al verde Alexander Van der Bellen (nella foto) con appena il 50,3%, ovvero con un vantaggio di 31.000 voti sul candidato del Freiheitlichen Partei Österreichs (Fpö), Norbert Hofer. Ai popolari e ai socialisti, i partiti che governavano il Paese dal dopoguerra, sono stati preferiti movimenti politici “alternativi” che hanno diviso gli elettori secondo linee geografiche, di censo, d’istruzione e di genere: il verde ha raccolto i voti in città, tre le donne, le fasce più scolarizzate e benestanti, il candidato della destra ha ottenuto consensi tra gli uomini, i meno abbienti e istruiti che vivono nelle zone rurali del paese.
Proprio il successo del Partito della Libertà (Fpö) al primo turno delle elezioni e l’affermazione di Hofer, volto gentile dell’estrema destra, avevano suscitato interesse, nonché allarme in Europa: sullo sfondo delle elezioni austriache stava infatti la montata recente di partiti ultranazionalisti e populisti europei che raccolgono consensi attorno al rinfocolare di argomenti nazionalisti e xenofobi sul fenomeno migratorio e sull’abbandono delle istituzioni europee. È così che il voto dei solamente 6,4 milioni di austriaci chiamati alle urne ha riesumato vecchi fantasmi: primo fra tutti quello del ritorno di un filo-nazista, seppur “evoluto”, nel palazzo presidenziale di Vienna.
Evoluto nel linguaggio pacato e nei modi gentili che lo differenziano nettamente dal leader del Partito, Heinz-Christian Strache, abituato a urlare e meno presentabile in un agone pubblico di più ampio respiro.
Nostalgico di un passato con cui l’Austria ha spesso evitato di fare i conti riducendo banalmente la propria adesione al Terzo Reich quale quella di “prima vittima” dell’aggressione hitleriana a seguito all’Anschluss del 1938. Una cattiva coscienza del Paese ereditata proprio dal Fpö che è stato creato raccogliendo i consensi e una parte del personale politico degli ex nazisti. Hofer nella sua attività politica non ha ritenuto affatto inopportuno esibire una spilla a forma di fiordaliso all’occhiello della giacca, un simbolo utilizzato come segno di riconoscimento dagli aderenti ai movimenti pangermanisti e antisemiti che sostennero l’ascesa al potere del nazionalsocialismo.
Educato nel suo esprimersi contro gli immigrati e gli islamici, con i suoi slogan “l’Austria e austriaci per primi” tanto sul lavoro quanto nei servizi sociali e “l’Islam non fa parte dell’Austria”, che lo rendono tanto apprezzato da omologhi leader politici che utilizzano i capisaldi del razzismo nella propria ars oratoria contribuendo alla consueta costruzione del capro espiatorio a cui attribuire le responsabilità di crisi economica, disoccupazione ed inefficienze dell’apparato statale.
Schifato da un’Unione Europea che ruba sovranità nazionale e restituisce obblighi e un conto salato da pagare per la sua macchina burocratica, da una globalizzazione che cancella le tradizioni e la cultura, da un progresso sul piano dei costumi che, in nome della tutela dei diritti umani, concede diritti alle coppie omosessuali.
Armato, letteralmente. Giustificando il possesso di un’arma con il presunto aumento di criminalità ritenuto connesso alla presenza di richiedenti asilo e di immigrati in Austria,Hofer si vanta di andare in giro armato e di essere favorevole all’uso delle armi in quelli che definisce “tempi di insicurezza”.
Ora che in molti tirano un sospiro di sollievo per la mancata elezione di Hofer al vertice della repubblica austriaca, altrettanti altri rivendicano la bontà della sua proposta politica che ha intercettato un voto su due degli elettori austriaci, nonché tuonano contro l’assenza di una piena adesione ai meccanismi democratici proprio da parte degli avversi al Fpö per questa critica serrata a un partito tacciato di continuo come razzista-populista-xenofobo.
E come si potrebbe altrimenti per quel leitmotiv del “dobbiamo innanzitutto occuparci della nostra gente” o per l’affermazione che Hofer non si stanca mai di ripetere che “l’Austria non deve diventare un paese di immigrazione”? Al pari di tutti i territori del mondo, anche l’Austria è un paese la cui identità è stata costruita attraverso un processo di modifica, adattamento e mescolamento a cui la mobilità di persone e di idee ha in primis contribuito. La perdita di competitività e l’abbassamento del tenore di vita poco hanno a che fare con i richiedenti asilo o gli immigrati, quanto piuttosto con un welfare ormai insostenibile visti i tassi demografici di una popolazione sempre più anziana, tanto per fare un esempio. Eppure nel corso della storia le false teorie su popoli e razze hanno alimentato e “autorizzato” scempi, etnocidi e genocidi, e oggi continuano a creare una graduatoria nella concessione di servizi di welfare e di tutela dei diritti umani.
Il contagio di questi movimenti non è più solo un rischio, è una realtà che vede l’erezione di muri ideali e reali tra le persone. Pur essendosi per pochi voti arrestata alle porte di Vienna, l’ondata di messaggi di irresponsabile odio macina voti, raccolti tanto nel segreto delle urne quanto nelle aperte condivisioni pubbliche e sui social. Se c’è un’identità a rischio è di certo quella europea eretta su valori della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e del rispetto dei diritti umani, un messaggio politico in cui solo metà degli austriaci sembra ancora credere.
Miriam Rossi