Amnesty International ha dichiarato oggi che il progetto dell’Unione europea di cooperare più strettamente con la Libia in materia d’immigrazione rischia di favorire i maltrattamenti e la detenzione a tempo indeterminato, in condizioni terribili, di migliaia di migranti e di rifugiati.
Il mese scorso l’Unione europea ha annunciato l’intenzione di estendere per un altro anno l’operazione navale di contrasto ai trafficanti di esseri umani denominata “Sofia” e, su richiesta del nuovo governo di Tripoli, di offrire formazione alla guardia costiera libica e di condividere informazioni con quest’ultima.
Dalle testimonianze raccolte nel mese di maggio da Amnesty International in Sicilia e in Puglia sono emersi scioccanti dettagli di violenze inflitte dalla guardia costiera libica e nei centri di detenzione per migranti in Libia.
Amnesty International ha incontrato 90 persone sopravvissute alla traversata del Mediterraneo dalla Libia all’Italia, tra cui almeno 20 rifugiati e migranti che hanno denunciato pestaggi e uso delle armi da fuoco da parte della guardia costiera così come terribili torture all’interno dei centri di detenzione.
In un caso, la guardia costiera ha lasciato alla deriva un gommone in avaria con 120 persone a bordo, anziché trarle in salvo.
“L’Europa non dovrebbe neanche ipotizzare accordi con la Libia in tema d’immigrazione di fronte a queste conseguenze, dirette o indirette, sul piano delle violazioni dei diritti umani. L’Unione europea ha più volte mostrato l’intenzione di impedire le partenze di migranti e rifugiati quasi a ogni costo e trascurando l’aspetto dei diritti umani” – ha dichiarato Magdalena Mughrabi, vicedirettrice ad interim del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
“Mentre è ovviamente necessario migliorare la capacità della guardia costiera libica di cercare e soccorrere vite umane in mare, quello che ora accade è che la guardia costiera intercetta migliaia di persone in mare e le riporta nei centri di detenzione dove subiscono la tortura e altre violazioni. È indispensabile che qualunque forma assistenza da parte dell’Unione europea non alimenti e perpetui le orribili violazioni dei diritti umani ai danni di cittadini stranieri in Libia dalle quali questi ultimi cercano disperatamente di mettersi al riparo” – ha proseguito Mughrabi.
Il 7 giugno la Commissione europea ha annunciato ulteriori piani per rafforzare la cooperazione e il partenariato con paesi terzi della zona africana considerati strategici per fermare l’immigrazione: tra questi vi è la Libia.
Nonostante dominino violenza e assenza di legge e nel 2014 sia nuovamente ripreso il conflitto armato, la Libia continua a essere la meta di centinaia di migliaia di migranti e rifugiati diretti in Europa, provenienti soprattutto dall’Africa sub-sahariana. Queste persone fuggono a causa della guerra, della persecuzione o della povertà estrema, da paesi come Eritrea, Etiopia, Gambia, Nigeria e Somalia. Altre persone si trovano in Libia da anni ma vogliono lasciare il paese perché, privi di protezione da parte di qualsiasi autorità, vivono nel costante timore di essere fermati, picchiati e rapinati da bande armate o dalla polizia.
Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, nei primi cinque mesi del 2016 oltre 2100 persone hanno perso la vita in mare nel tentativo di raggiungere l’Italia. Oltre 49.000 persone sono state salvate da forze navali europee, navi di organizzazioni non governative o navi commerciali.
Violenze da parte della guardia costiera libica
Tra il 22 e il 28 maggio almeno 3500 persone sono state intercettate in mare dalla guardia costiera libica e trasferite in centri di detenzione.
Nel gennaio 2016 un’imbarcazione che avrebbe potuto trasportare al massimo 50 persone e che ne aveva a bordo 120, è stata intercettata dalla guardia costiera. Questo è il racconto di Abdurrahman, 23 anni, proveniente dall’Eritrea:
“Ci hanno fatto scendere e picchiati coi tubi di gomma e i bastoni di legno. Poi hanno sparato al piede dell’ultimo che stava scendendo dalla barca, solo perché non aveva saputo indicare il timoniere e allora hanno pensato che fosse lui…”
Un altro eritreo, Mohamed, 26 anni, ha raccontato della volta in cui la guardia costiera ha lasciato andare alla deriva un gommone in avaria con 120 persone a bordo:
“Uno degli uomini della guardia costiera è salito a bordo per riportarci indietro. Dopo un po’ il motore si è spento. Si è infuriato ed è risalito sulla loro nave, urlando ‘Se il vostro destino è morire, morirete’. Ci hanno lasciato lì in mezzo al mare…”
Alla fine il motore è ripartito ma poiché il gommone continuava a perdere aria, il gruppo di persone a bordo è stato costretto a tornare sulla terraferma.
Nell’ottobre 2013 Amnesty International aveva denunciato l’affondamento di un peschereccio contro il quale un’imbarcazione libica non identificata aveva aperto il fuoco. In quell’occasione annegarono 200 persone, tra cui donne e bambini. Alcuni dei sopravvissuti accusarono la guardia costiera libica di aver colpito il peschereccio. I risultati dell’indagine aperta sull’episodio non sono mai stati resi pubblici.
Agghiaccianti violenze nei centri di detenzione libici
Secondo la guardia costiera libica, i migranti e i rifugiati intercettati in mare vengono abitualmente portati nei centri di detenzione per immigrati.
Dal 2011, Amnesty International ha raccolto decine e decine di testimonianze di ex detenuti (compresi minori non accompagnati e donne) sulle terribili condizioni di detenzione nonché sulle violenze e sugli abusi di natura sessuale che si verificano all’interno di quei centri. Le testimonianze più recenti confermano che le cose continuano ad andare avanti nello stesso modo.
I centri, 24 in tutto secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, sono diretti dal Dipartimento per contrastare l’immigrazione illegale che, teoricamente, dovrebbe essere alle dipendenze del ministero dell’Interno. Di fatto, molti centri sono gestiti dai gruppi armati. Il governo di accordo nazionale, sostenuto a livello internazionale, deve ancora assumerne il controllo.
Secondo la legislazione libica l’ingresso, l’uscita e la permanenza illegali in Libia sono un reato. I cittadini stranieri che si trovano in questa condizione possono essere posti in detenzione a tempo indeterminato in attesa dell’espulsione.
Solitamente, i detenuti stranieri rimangono nei centri per mesi senza poter incontrare familiari e avvocati e senza vedere un giudice. Non possono contestare la legittimità della loro detenzione né chiedere protezione, data l’assenza di un sistema nazionale d’asilo. Le espulsioni sono eseguite senza alcuna tutela né esame individuale.
“Il fatto che sia possibile trattenere una persona in carcere all’infinito solo sulla base della sua condizione d’immigrato è un oltraggio. Invece di ottenere protezione, i migranti e i rifugiati finiscono per essere torturati. La Libia dovrebbe immediatamente porre fine a questo sistema di detenzioni illegali e torture nei confronti dei cittadini stranieri e adottare una legislazione sull’asilo che consenta a chi ha bisogno di protezione internazionale di ottenere un rifugio” – ha sottolineato Mughrabi.
Ex detenuti – tra cui persone intercettate in mare e cittadini stranieri fermati in strada – hanno riferito che venivano picchiati ogni giorno con bastoni di legno, tubi di gomma e cavi elettrici e venivano sottoposti a scariche elettriche.
Un eritreo di 20 anni che era a bordo di un natante intercettato in mare dalla guardia costiera nel gennaio 2016, ha raccontato di essere stato trasferito in un centro di detenzione di al-Zawyra, nella Libia occidentale, e di essere stato picchiato ripetutamente.
Questo, invece, è il racconto di un uomo detenuto nel centro di detenzione Abu Slim di Tripoli, dove secondo la Missione Onu di supporto alla Libia, si trovano almeno 450 detenuti:
“Le guardie ci picchiavano tre volte al giorno usando un cavo elettrico che era stato annodato tre volte per renderlo più duro”.
I detenuti venivano obbligati a dormire all’aperto senza alcun riparo dalle temperature estreme. Le guardie spargevano acqua sul pavimento per farli dormire sul bagnato.
Charles, 35 anni, proveniente dalla Nigeria, ha denunciato di essere stato fermato in una strada di Tripoli, nell’agosto 2015, e di essere stato trasferito in cinque centri di detenzione:
“Ci picchiavano tutti, sempre, ogni giorno. Una volta mi hanno rotto il braccio a bastonate, mi hanno portato in un ospedale ma non ho ricevuto alcuna medicazione. Per colpirci usavano bastoni e pistole, a volte anche la corrente elettrica”.
Quando le guardie hanno minacciato di espellerlo, ha urlato “Qualunque cosa sarà meglio di questo inferno”.
Un uomo di 28 anni originario dell’Etiopia, arrestato insieme alla moglie a un posto di blocco, ha trascorso quattro mesi in un centro di detenzione di Kufra, nel sud-est della Libia. Ha denunciato di essere stato picchiato regolarmente, chiuso in un box, frustato e ustionato con acqua bollente. Stessa sorte per la moglie, picchiata insieme ad altre detenute dal direttore del centro. Alla fine la coppia ha pagato una somma di denaro ed è stata rilasciata.
Nessuno dei centri diretti dal Dipartimento per contrastare l’immigrazione illegale ha personale femminile in servizio. Questo aumenta i rischi di subire violenza sessuale.
Numerosi testimoni hanno visto rifugiati e migranti morire durante la detenzione, a colpi di arma da fuoco o a seguito dei pestaggi:
Questa è la testimonianza di un 19enne eritreo detenuto a Kufra:
“Se dicevamo che avevamo fame, le guardie venivano a picchiarci. Ci costringevano a stare a pancia in giù e ci picchiavano coi tubi di gomma. Una volta hanno sparato a un detenuto del Ciad, senza alcun motivo. Lo hanno portato in ospedale, poi di nuovo in cella ed è morto. Ufficialmente, è morto a seguito di un incidente d’auto. Lo so, perché mi facevano lavorare, gratis, nella stanza degli archivi”.
Un altro eritreo che ha trascorso cinque mesi da ottobre 2015 nel centro di detenzione di al-Zawiya ha dichiarato di aver visto un uomo picchiato a morte dalle guardie. Poi hanno avvolto il corpo in un lenzuolo e l’hanno portato via. Lo stesso eritreo ha denunciato che in un’occasione le guardie sono entrate in una cella e hanno sparato a sette detenuti perché non capivano gli ordini in arabo.
Nell’aprile 2016 la Missione Onu di supporto alla Libia ha sollecitato un’indagine sulla morte di quattro persone, uccise a colpi di arma da fuoco mentre stavano cercando di evadere dal centro di al-Zawiya.
Ex detenuti hanno anche denunciato l’assenza di cibo e di acqua potabile, le scarse cure mediche e lo squallore delle celle così come la mancanza d’igiene che secondo molti è la causa della diffusione di malattie della pelle. Le volte in cui medici di organismi umanitari venivano condotti nei centri di detenzione, potevano visitare solo pochi detenuti peraltro troppo impauriti per denunciare i trattamenti subiti. Le medicazioni ricevute venivano sequestrate dalle guardie.
“L’Unione europea non può ignorare questi racconti di orrore puro sullo scioccante trattamento inflitto ogni giorno ai cittadini stranieri in Libia. Prima di delineare qualsiasi piano o politica, dovrebbero esserci solide garanzie sul pieno rispetto dei diritti dei migranti e dei rifugiati in Libia: cosa estremamente improbabile nel breve termine” – ha commentato Mughrabi.
Discriminazione religiosa
Nei centri di detenzione libici il rischio di maltrattamenti ai danni di cittadini stranieri di religione cristiana sono in aumento.
Questo è il racconto di Omar, 26 anni, eritreo:
“I cristiani li odiano. Se sei cristiano, devi solo pregare Dio che non ti trovino. Se scoprono una croce o un tatuaggio religioso, ti picchiano ancora di più”.
Un ex detenuto della Nigeria ha raccontato di come, nel centro di detenzione di Misurata, i detenuti venissero separati in base alla fede. I cristiani venivano poi frustati:
“All’inizio mi dicevo che non avrei mai cambiato la religione anche se mi trovavo in un paese islamico. Poi mi hanno arrestato e mi hanno frustato. La volta dopo ho mentito e ho detto che ero musulmano”.
Anche Semre, 22 anni, eritreo, trasferito in un centro di detenzione nel gennaio 2016 dopo che la sua imbarcazione era stata intercettata in mare, conferma che i cristiani vengono trattati peggio degli altri:
“Mi hanno picchiato e preso i soldi. Poi hanno trovato la mia Bibbia, hanno strappato la croce che avevo al collo e le hanno scagliate lontano. Per prima cosa controllano se hai soldi nelle tasche, poi prendono un cavo elettrico e ti frustano”.
Sfruttamento, estorsione e cessione ai trafficanti
Le testimonianze raccolte hanno portato Amnesty International a concludere che l’unica speranza che i detenuti hanno di essere rilasciati sta nella fuga, nel pagamento di una somma di denaro o nella cessione ai trafficanti.
Molti subiscono estorsioni, vengono sfruttati o costretti a lavorare gratuitamente, all’interno di centri di detenzione o all’esterno, da persone che pagano le guardie.
Daniel, 19 anni, proveniente da Ghana e detenuto in Libia nel 2014, ha raccontato come la sua unica possibilità di porre fine ai pestaggi in detenzione, non avendo soldi a disposizione, fosse quella di evadere:
“Non avevo soldi così ho dovuto fare lo schiavo per tre mesi: trasportare sabbia e pietre, coltivare. Quando dicevo che avevo fame, si mettevano a urlare. Mi hanno fatto bere acqua mescolata a petrolio o col sale dentro, solo per punirmi. Un giorno mi hanno dato un telefono dicendomi di chiamare a casa per farmi mandare dei soldi. Ma i miei genitori sono morti, non avevo nessuno da chiamare. Allora mi hanno picchiato e per un po’ non mi hanno dato da mangiare”.
In alcuni casi, i detenuti sono fuggiti o sono stati rilasciati dalle persone per cui lavoravano all’esterno, che li hanno anche aiutati a imbarcarsi in cambio del loro lavoro gratuito.
In altri casi, i trafficanti hanno negoziato il rilascio di detenuti – spesso corrompendo le guardie – così da avere altre persone da imbarcare al costo di circa 1000 dollari ciascuno. In un caso, i trafficanti si sono presentati alla guardie con “automobili zeppe di prodotti” in cambio dei detenuti.
“L’Europa non può continuare ad abdicare alle sue responsabilità in questa crisi globale dei rifugiati senza precedenti. Per evitare di rendersi complice del ciclo di abominevoli violenze che stanno subendo migranti e rifugiati in Libia, l’Unione europea dovrebbe concentrare i suoi sforzi nell’ottenimento di garanzie che la guardia costiera libica porti avanti le sue attività nel rispetto dei diritti umani, che nessun rifugiato o migrante sia sottoposto a detenzione illegale e che, soprattutto, vi siano alternative ai viaggi pericolosi. Questo significa aumentare enormemente il numero dei reinsediamenti in Europa e garantire visti e ammissioni per motivi umanitari” – ha concluso Mughrabi.