Domenica 15 maggio è stato il Giorno della Nakba, l’anniversario della Catastrofe per il popolo palestinese, che segue di 24 ore la data in cui fu proclamato lo Stato di Israele. Un giorno per commemorare i caduti, la perdita dei villaggi e della terra palestinese. In molti non sanno o non vogliono pensare al fatto che la costruzione dello Stato di Israele ha avuto tutto questo come diretta conseguenza. In pochi ragionano sui massacri che nei giorni della Nakba sono stati compiuti ad opera dei gruppi terroristici sionisti. Quasi nessuno, se non i superstiti e i parenti di chi perse la vita in queste circostanze, si spinge fino a considerare il fatto che durante la lunga deportazione furono in molti a perire o ad essere uccisi. Ce lo ricorda il più grande studioso della Nakba, Salman Abu Sitta, che, lui stesso profugo, non ha mai smesso di investigare su modalità e conseguenze della Catastrofe, proponendo, ancora oggi, degli strumenti per superarla.
Israele cominciò la sua battaglia contro la Nakba immediatamente dopo averla fatta succedere. Non permise ai rifugiati di tornare alle loro case e alle loro terre e confiscò le loro proprietà abbandonate forzatamente. Distrusse improvvidamente 418 villaggi, li coprì con alberi piantati dal Fondo Nazionale Ebraico e impedì che ci si ricordasse della loro esistenza. Si seguì il rozzo approccio secondo cui si può cancellare con gli alberi la memoria di un popolo, sopprimere il suo dolore e la sua coscienza con le leggi e con la forza. Come scrisse Gideon Levy nella ricorrenza del 2015, “Questo Paese di monumenti proibì ogni monumento alla loro tragedia. Questo Paese di giorni della memoria e di rimuginazioni nel dolore proibì il loro lutto. Ogni arabo che ha con sé una chiave arrugginita è considerato un nemico; ogni segnale che indica un villaggio distrutto è un’infamia”. Tuttavia, “Più Israele cerca di soffocare la memoria, più questa si rafforza. L’Unione Sovietica cercò di fare la stessa cosa con i suoi ebrei e con le altre minoranze e non ci riuscì. La terza e la quarta generazione dopo la Nakba ancora ricordano, e sono anche più determinate delle precedenti. Hanno organizzato campi estivi proibiti sulle rovine di alcuni villaggi; non c’è nipote o pronipote che non sappia dove vivevano i suoi antenati. Una ferita nascosta non si cicatrizza mai”.
Vedi:
http://www.plands.org/en/maps-atlases/maps/al-nakba-anatomy
http://www.plands.org/en/books-reports/books/right-of-return-sacred-legal-and-possilble
http://www.plands.org/en/books-reports/books/the-palestinian-nakba-1948
http://www.plands.org/en/maps-atlases/atlases/the-atlas-of-palestine
http://www.haaretz.com/opinion/.premium-1.656327
I rifugiati
L’incredibile situazione dei 7 milioni di rifugiati palestinesi è emblematica dell’esperienza vissuta da questo popolo nel corso del XX secolo. Il 70% dei palestinesi è costituito da rifugiati, e uno su tre rifugiati presenti nel mondo ha origini palestinesi. La metà dei rifugiati palestinesi è poi apolide.
In generale, i rifugiati palestinesi non vedono rispettati i propri diritti umani, non godono di adeguata protezione internazionale, e soffrono più di ogni altro le conseguenze dell’occupazione israeliana. Dal 1947 al 1949 circa 726.000 palestinesi sono stati espulsi dalle loro case, divenendo rifugiati appena prima, durante o subito dopo la costituzione dello Stato di Israele.
Molti scapparono in seguito ad assalti militari, altri per paura di attacchi da parte delle milizie ebraiche. Circa 180.000 rimasero nelle zone della Palestina che divennero parte dello Stato di Israele. A tutti costoro, Israele proibì di tornare alle loro case e ai loro villaggi.
Successivamente, durante l’occupazione militare della Cisgiordania e di Gaza nel 1967, circa 300.000 palestinesi furono costretti a lasciare (in alcuni casi di nuovo) le loro case, per spostarsi in altre parti dei Territori Palestinesi Occupati o al di là dei loro confini. Di questi, in 120.000 erano già stati sfollati nel 1948. Né i rifugiati del 1948 né i rifugiati e gli sfollati del 1967 sono ancora potuti tornare alle loro case. Anzi, i palestinesi espulsi o scappati intorno al 1948 furono de-nazionalizzati dal parlamento israeliano nel 1952; e le loro proprietà furono confiscate dallo Stato di Israele perché ne usufruisse esclusivamente la popolazione ebraica, che si è andata invece ingrossando grazie all’ingresso illimitato di immigrati della stessa religione.
Come ebbe a dire l’allora Ministro della Difesa Moshe nel 1969, “Nessuno di voi conosce i nomi di questi villaggi arabi, e non vi biasimo, perché non solo non ci sono più i libri di geografia, ma non ci sono più proprio i villaggi”.
La cosa interessante è che il 90% delle aree un tempo occupate dai villaggi è rimasto libero da nuove costruzioni, mentre ad oggi quasi tutti i rifugiati palestinesi vivono a meno di 100 Km di distanza dal confine israeliano, nella Striscia di Gaza, nei Territori Occupati, in Giordania, Siria e Libano.
Vedi:
http://www.nad-plo.org/etemplate.php?id=12&more=1#1
Il diritto al ritorno (e alle riparazioni)
Per decenni, Israele ha negate ai rifugiati palestinesi il diritto al ritorno, violando in questo modo la Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che, già l’11 dicembre del 1948, stabiliva che “i rifugiati palestinesi che volessero tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini, dovrebbero poterlo fare al più presto, mentre una riparazione dovrebbe essere garantita per le proprietà di coloro che non volessero tornare e per quelle che sono andate perse o danneggiate”.
Il diritto al ritorno è stato puntualmente riaffermato dall’Assemblea Generale, ogni anno da allora, e dalla Risoluzione 237 approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel 1967.
Ma è anche sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, dalla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, dalla Commissione ONU per i Diritti all’Abitazione e per la Restituzione delle Proprietà a Rifugiati e Sfollati, e dalla Commissione ONU sull’Eliminazione della Discriminazione Razziale.
Paradossalmente, al momento non c’è agenzia delle Nazioni Unite che fornisca protezione legale e una soluzione duratura a rifugiati e sfollati. La Commissione di Conciliazione per la Palestina (UNCCP), stabilita dall’ONU proprio con questo proposito, giace in letargo da più di cinquant’anni. E l’UNRWA, che ha il mandato di provvedere all’assistenza umanitaria dei rifugiati solo nelle sue 5 aree operative (Giordania, Libano, Striscia di Gaza, Siria e Cisgiordania compresa Gerusalemme Est), adesso non può sopperire a questa lacuna, anche per motivi finanziari.
C’è quindi urgente bisogno o di risuscitare la UNCCP per far rientrare i rifugiati palestinesi nell’ambito del mandato di cui si occupa l’UNHCR, o di estendere ufficialmente l’attuale mandato dell’UNRWA, sia dal punto di vista delle missione che dal punto di vista del raggio d’azione e delle capacità finanziarie.
La posizione dello Stato di Palestina richiede che sia rispettato il diritto internazionale e si riflette nell’Iniziativa di Pace Araba (API). Una soluzione giusta deve pertanto affrontare due aspetti: quello del ritorno e quello delle riparazioni.
E’ necessario per questo che Israele riconosca innanzitutto i diritti dei rifugiati, compreso quello al ritorno, perché si passi poi a discutere come agire concretamente. Al centro deve esserci la libera scelta dei rifugiati, la loro possibilità di decidere se tornare in Israele, tornare nello Stato di Palestina, integrarsi nel “Paese ospite” o trasferirsi altrove. E per ognuna di queste opzioni devono essere messi a disposizione corsi di formazione lavorativa, assistenza sanitaria, unità abitative e quant’altro sia necessario a ristabilirsi.
Anche per le riparazioni, che possono andare di pari passi con il ritorno, è necessario che Israele riconosca le proprie responsabilità. Il secondo elemento indispensabile consiste nella “restituzione”, che è il primo rimedio previsto dal diritto internazionale in caso di confisca arbitraria delle proprietà. Qualora la restituzione sia impossibile o insufficiente, o nel caso in cui il rifugiato preferisca una ricompensa economica, questa deve essere piena e completa.
Vedi:
http://www.alhaq.org/advocacy/targets/palestinian-human-rights-organizations/1044-the-nakba-at-68-a-catastrophe-born-of-discrimination-and-impunity
http://www.badil.org/phocadownload/Badil_docs/bulletins-and-briefs/Brief-No.5.pdf
http://www.nad-plo.org/etemplate.php?id=12&more=1#1
La storia di Iqrit
Per dare un’idea dei danni morali e materiali sofferti dai cittadini palestinesi colpiti dalla Nakba, riportiamo la storia che Maher Daoud, discendente da esuli del villaggio di Iqrit al confine con il Libano, ha raccontato a Fida Jiryis, che l’ha scritta.
Durante la cosiddetta “guerra di indipendenza” israeliana del 1948, i residenti di Iqrit e di Biram, un altro villaggio nelle vicinanze, furono strappati dalle proprie case per “motivi di sicurezza”, presumibilmente per proteggere i confini settentrionali di Israele. I residenti di Iqrit furono trasportati nel villaggio di Rama, venti chilometri più a Sud in Galilea, e gli venne detto che sarebbe stato per poche settimane, finché la situazione non si fosse calmata tanto da potere tornare. Ma ciò non avvenne mai.
La vigilia di Natale del 1950 l’esercito israeliano fece esplodere tutte le case di Iqrit, un sollecito “regalo natalizio” per i residenti cristiani espulsi. Nel 1951 l’Alta Corte israeliana decretò che gli abitanti fossero autorizzati a ritornare “fin quando non sussistesse alcun decreto di emergenza nei confronti del villaggio”. Detto e fatto, il governo fu subito pronto a emanare tale decreto contro gli evacuati di Iqrit. Nel 1953 fece esplodere anche le case di Biram, lasciando in piedi soltanto le chiese dei due villaggi. Due anni dopo, il furto era completato: la terra dei due villaggi – 16.000 dunam (1 dunam=1.000 mq) a Iqrit e 12.000 dunam a Biram – fu espropriata per costruire gli insediamenti ebraici che sono ancora lì oggi: Even Menahem, Shlomi e Shtula.Tutto ciò che si vede oggi di Iqrit sono alberi e arbusti, la fitta vegetazione caratteristica delle zone selvatiche della Galilea. I piccoli cumuli di detriti sparsi qua e là sono l’unico motivo per credere che chi vi parla non sia un pazzo o uno squilibrato.
Sono tali il rifiuto e la fobia da parte di Israele che i Palestinesi possano esercitare il diritto di ritorno alle proprie case rubate: persino una semplice strada per raggiungere un cimitero viene rovinata, in modo che non possa diventare un precedente.
All’ingresso del cimitero una grande lapide che reca incise queste parole: “Ricordiamo e non dimenticheremo – questa lapide è stata eretta in memoria dei nostri padri e delle nostre madri che organizzarono un sit-in nella chiesa di Iqrit, nella speranza di ritornarvi da vivi, così come stato decretato dalla massima autorità giudiziaria del Paese (cioè l’Alta Corte israeliana), a ricostruire ciò che era stato distrutto per mano degli amministratori.
Ma una politica di negazione dei diritti e di confisca delle terre non glielo permise, ed essi morirono da esuli nella propria terra.” La popolazione di Iqrit si stabilì a Rama in condizioni durissime. L’improvviso flusso di esuli causò sovraffollamento e altre difficoltà, e i lavori scarseggiavano. Al dolore di aver perso tutto ciò che avevano nello spazio di una notte si aggiungeva l’esperienza della nuova dura realtà. Maher, ad esempio, era nipote del mukhtar, o capo villaggio, di Iqrit. Il nonno era molto agiato, era proprietario di un negozio e di un frantoio, e commerciava in tabacco. Venne travolto dallo shock di avere perduto tutto ciò che possedeva – casa, terre, imprese – e di essersi trasformato da un giorno all’altro in un profugo senza casa e senza soldi.
Il padre di Maher visse negando la realtà. “Per anni, mentre io crescevo, mio padre si rifiutò di dipingere la casa o di fare qualsiasi lavoro di restauro, per quanto urgente fosse. Perché? Perché temeva che in quel caso si potesse pensare che si stava abituando alla sua nuova casa e che si era scordato di Iqrit o della speranza di farvi ritorno.”
La popolazione di Iqrit mostrò quanto valesse a Rama, accettando lavori umili e sottoponendosi a dure condizioni pur di mantenere la famiglia. Nel tempo le generazioni seguenti si trasferirono a Haifa e in altre località in cerca di lavoro. Come conciliare il fatto di vivere in Israele, accanto al popolo che si è preso il suo villaggio e ha commesso questa ingiustizia? “E’ un’enorme contraddizione,” dice con dolore Maher. “Loro sono quelli che mi hanno fatto questo, ci hanno fatto questo, tuttavia sono quelli che vengono a comprare nella mia rivendita di hummus; ho bisogno di loro per sopravvivere.” La gente di Iqrit è notevolmente unita e ferma nella determinazione di ritornare al proprio paese.
Sei decenni dopo essere stati cacciati dalle loro terre e case, essi pregano ancora nella propria chiesa, seppelliscono i loro morti a Iqrit, e vi tengono ogni anno campi estivi per i bambini, per insegnargli la storia del villaggio. Nonostante la battaglia legali continui, Israele non intende autorizzarli a tornare, perché questo costituirebbe un precedente per il ritorno di altri esuli palestinesi nelle loro case. La storia di Iqrit, però, è anche un esempio della forza della casa e dell’appartenenza. Nessuno, neppure Israele, può annullarla.
I Palestinesi sono legati a questa terra da generazioni; non è un legame che si possa recidere o sostituire. Essi non conoscono altra casa e reclamano soltanto un proprio diritto umano fondamentale: ritornare a quella casa da cui sono stati tanto crudelmente strappati. “Mio padre vive da 64 anni un’esistenza provvisoria,” dice Maher. “Perché sono 64 anni che vive seduto sulla valigia, nell’attesa di andare a casa sua.”
Vedi:
http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&view=article&id=3518:ritorneremo-la-storia-di-iqrit&catid=22:dossier&Itemid=42
L’odierna politica di trasferimento silenzioso
Una domanda d’attualità è la seguente: Ha mai rinunciato Israele alla politica che provocò la Nakba? Non è forse la stessa politica di espropriazione, occupazione, oppressione, distruzione ed espulsione che continua fino ad oggi, 68 anni dopo il 1948 e 49 anni dopo il 1967?
Dal 1967, il popolo palestinese ha continuato a subire trasferimenti forzati come conseguenza della demolizione delle loro case, della confisca delle loro terre, della revoca della propria residenza, della costruzione del Muro e degli insediamenti, dell’ingombrante presenza dell’esercito israeliano. La politica israeliana di trasferimento silenzioso è evidente nelle leggi, nelle politiche e nelle prassi dello Stato. Israele usa il suo potere per discriminare, espropriare e, infine, per portar avanti lo sfollamento forzato della popolazione autoctona non ebraica dalla zona della Palestina storica.
Per esempio, il sistema di pianificazione territoriale e zonizzazione israeliano fa sì che l’87% di Gerusalemme Est sia off-limits per uso palestinese, e che la maggior parte del restante 13% sia già costruito. Per questo, le costruzioni palestinesi sono per forza “illegali” e sotto la costante minaccia di essere demolite dall’esercito o dalla polizia israeliana, lasciando così i loro abitanti sfollati e senza tetto. Un altro esempio è il Piano Prawer approvato dal governo Netanyahu nel 2013, che prevede il trasferimento forzato di 40.000 cittadini palestinesi di Israele a causa di una politica di ripartizione israeliana che non riconosce più di trentacinque villaggi palestinesi situati nel Naqab (Negev). Israele tratta gli abitanti di quei villaggi come degli intrusi, e, ciclicamente, li costringe al trasferimento forzato. Questo avviene, ovviamente, nonostante il fatto che queste comunità siano precedenti alla nascita dello stato d’Israele.
Più subdola la decisione del 2012 della Corte Suprema israeliana di vietare il ricongiungimento tra i palestinesi con cittadinanza israeliana e i loro familiari al di là della linea dell’armistizio del 1948. L’effetto di questa sentenza ha infatti portato alla creazione di diversi status civili per i palestinesi, in base al territorio in cui vivono: cittadinanza israeliana, carta d’Identità di Gerusalemme, carta d’Identità della Cisgiordania o carta d’Identità di Gaza, tutte rilasciate da Israele e incompatibili ai fini della coabitazione. Per questo, i possessori di diversi documenti si trovano di fronte alla scelta tra vivere all’estero, vivere distanti l’uno dall’altro o correre il rischio di vivere insieme illegalmente.
Tale sistema viene utilizzato come ulteriore mezzo per dislocare in maniera forzata i palestinesi, cambiando cosi la demografia d’Israele e dei Territori Occupati, a favore di una popolazione prevalentemente ebraica. Un’intenzione demografica che si riflette nel ragionamento della Corte, quando afferma che “i diritti umani non sono una ricetta per il suicidio nazionale”. Questo ragionamento è stato ulteriormente enfatizzato da Otniel Schneller, membro della Knesset, secondo il quale “la decisione articola la logica della separazione tra i [due] popoli e la necessità di mantenere una maggioranza ed un carattere ebraico dello Stato”. Ciò che dimostra, ancora una volta l’idea di uno Stato di Israele come Stato ebraico, dove i non ebrei, quasi tutti palestinesi, non godono degli stessi diritti.
Vedi:
Piano Prawer, Israele verso l’espulsione di 40mila beduini arabi del Negev
http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/story/la-continua-nakba-il-costante-sfollamento-forzato-del-popolo-palestinese
La nazionalità ebraica
Tutti i diversi mezzi con cui Israele innesca lo spostamento dei palestinesi sono legati al concetto centrale di nazionalità ebraica, in quanto questo è il meccanismo giuridico che consente la costante discriminazione della popolazione non ebraica. Questo stesso concetto rappresenta il legame tra il sionismo e il presunto “diritto” della nazione ebraica di occupare il territorio della Palestina storica. In altre parole, il concetto di nazionalità ebraica è il perno del regime israeliano di Apartheid in quanto affronta entrambi gli obiettivi del sionismo: da un lato la creazione e manutenzione di una specifica identità nazionale ebraica; dall’altro la colonizzazione della Palestina storica, attraverso la combinazione degli insediamenti ebraici con il trasferimento forzato dei non ebrei.
Questo concetto si incarna in legge attraverso la separazione della cittadinanza (“israeliana”) dalla nazionalità (“ebraica”). Una separazione confermata dalla Corte suprema israeliana nel 1972 e che permette a Israele di infierire soprattutto sui rifugiati palestinesi, da sempre. Sicuramente da quando sono state varate la legge israeliana del Ritorno del 1950 e la legge sulla cittadinanza israeliana del 1952, che concedono automaticamente la cittadinanza a tutti i cittadini ebrei, ovunque essi risiedano, vietando allo stesso tempo ai rifugiati palestinesi di ritornare e di risiede legalmente nel proprio territorio.
Vedi:
Proibito celebrare
“Visto che siamo in guerra contro un duro nemico, promulgheremo leggi che gli impediscano di ferirci”, ha dichiarato il parlamentare israeliano David Rotem poco prima della votazione finale della “legge sulla Nakba”, promulgata dalla Knesset nel marzo del 2011. Una creatura del partito ultranazionalista Yisrael Beitenu, presentata per la prima volta nel 2009 dal parlamentare Alex Miller. La versione originale prevedeva che qualsiasi persona celebrasse la Nakba come giorno di lutto sarebbe finita in carcere. Dopo molte proteste e vari emendamenti, si è arrivati alla versione odierna “più dolce”, che punisce i comuni, le organizzazioni e gli enti pubblici “che abbiano effettuato un pagamento per un evento o un’azione che mini l’esistenza di Israele come stato ebraico e democratico, violi i simboli dello Stato o contrassegni la data della fondazione di Israele come un giorno di lutto”.
Il giorno della catastrofe è celebrato da sempre dai palestinesi rimasti all’interno delle frontiere del ‘48. Dopo la fondazione dello stato di Israele, il ricordo dell’esilio è stato per alcuni anni una commemorazione a livello familiare o comunale, con gli abitanti dei vari villaggi che si recavano silenziosamente sul luogo della loro casa perduta.
Nel 1958 si tennero alcune marce di studenti arabi, poi bloccate dalle autorità israeliane. Successivamente, dopo gli eventi del 30 marzo 1976 e la proclamazione della “Giornata della Terra”, che ogni anno ricorda come la polizia israeliana represse le proteste dei palestinesi contro la confisca di terre in Galilea destinate alla costruzione di insediamenti ebraici, e come sei manifestanti furono uccisi, mentre altri 100 rimasero feriti e centinaia vennero arrestati, le marce verso i villaggi distrutti nel ’48 si fecero sempre più assidue. E nel 1991, dopo il fallimento della Conferenza di Madrid, l’Associazione per la Difesa dei diritti delle persone dislocate internamente organizzò la prima “Marcia del Ritorno”.
Per contrastare questi sentimenti e dopo la cancellazione di ogni riferimento alla dispersione palestinese nei libri di testo scolastici israeliani, la legge sulla Nakba aggiunse un tassello in più al tentativo di affossare la storia e la cultura palestinese in quello che oggi è lo Stato di Israele. Gli alunni palestinesi cittadini di Israele videro così sfumare ogni possibilità di poter partecipare, a scuola, a un evento con un alto valore educativo, oltre che sentimentale. E la stessa cosa venne impedita ai bambini ebrei, che persero così la possibilità di conoscere un po’ più a fondo “l’altro”.
Ciò nonostante, la Nakba continua ad essere celebrata, più o meno apertamente, in tutto il mondo.
Vedi:
Il riconoscimento della Nakba è parte della soluzione
Non solo la Nakba non si può dimenticare. Una soluzione giusta della questione dei rifugiati – che riconosca il diritto al ritorno e l’opportunità per i rifugiati di fare scelte significative diverse – è essenziale per una soluzione negoziata del conflitto israelo-palestinese. Israele deve riconoscere inequivocabilmente le proprie responsabilità per queste azioni se si vuole che ci sia una soluzione giusta, pacifica e sostenibile del conflitto.
Vedi:
http://nad-plo.org/userfiles/file/media%20brief/Nakba_2016_English.pdf