La Corte Suprema Mauritana, lo scorso martedì 17 maggio, ha disposto la liberazione degli attivisti anti-schiavisti Biram Dah Abeid e Brahim Ould Ramdane, condannati a due anni di carcere a seguito di una manifestazione non autorizzata e presunti scontri con la polizia nel gennaio 2014.
Inizialmente condannati, in un processo da molti giudicato irregolare quando non palesemente “politico”, a due anni di carcere, la Corte Suprema ha viceversa disposto la loro liberazione dopo sedici mesi di carcere. Come ha riportato la stampa francofona, i due attivisti anti-schiavisti (Biram dah Abeid è il presidente dell’organizzazione antischiavista denominata IRA, che sta per “Iniziativa per la Rinascita del Movimento Abolizionista”) erano stati condannati dalla Corte d’Appello di Aleg e, successivamente, imprigionati nel carcere di massima sicurezza della stessa Aleg (tristemente famoso, presso gli attivisti, come Guantanamo Mauritana) a due anni di prigione per “appartenenza ad un’organizzazione illegale, manifestazione non autorizzata, violenza contro la forza pubblica”.
All’inizio, non erano chiari i motivi del rilascio, soprattutto in ragione delle condizioni di estremo rigore della carcerazione cui erano stati sottoposti i due attivisti e della violenza con la quale il potere mauritano si era esercitato nella repressione di ogni manifestazione, democratica e nonviolenta, per i diritti umani e contro la schiavitù, portata avanti dall’IRA. Come ha riferito ad altre fonti l’avvocato Brahim Ould Ebetty, la Corte Suprema ha deciso di “riclassificare” i reati loro imputati di appartenenza ad un’organizzazione illegale e di resistenza ai pubblici ufficiali, associandoli a reati punibili, secondo il codice mauritano, con la detenzione da due mesi a un anno.
In altri termini, secondo questa “riclassificazione”, i due attivisti si troverebbero ad avere già ampiamente scontato la pena prevista. I due sarebbero quindi, secondo tale riclassificazione, stati sottoposti ad una pena eccessiva, un vero e proprio abuso di detenzione; il periodo detentivo sarebbe stato in ogni caso superato e questo dovrebbe avere motivato l’ordinanza della Corte Suprema per la loro immediata scarcerazione. Allo stesso tempo, la Corte Suprema ha rinviato la causa ad un’altra corte d’appello. In linea teorica, si dovrebbe aprire un nuovo processo, che dovrebbe essere istruito sulla base dell’ordinanza della Corte Suprema, per rivedere le sentenze precedenti e agire nei termini stabiliti dalla Corte. All’atto pratico, si apre un nuovo iter giudiziario a carico dei due attivisti e di IRA Mauritania, che rimane così sempre più sotto i riflettori del potere.
Biram dah Ould Abeid, attivista internazionale, è uno degli storici protagonisti della lotta per i diritti umani e contro la schiavitù nel suo Paese. È stato, tra l’altro, insignito del Premio “Città di Weimar” 2011 per i diritti umani, il Premio ECHO Africa nel 2014 conferito dalla Città di Philadelphia, senza dimenticare il Premio irlandese Human Rights Defenders 2013 ed il Premio olandese “Tulip” 2015 per i difensori dei diritti umani. È una vera, come talvolta ripetono gli attivisti, spina nel fianco del potere costituito e, alle ultime elezioni presidenziali, celebrate il 21 giugno 2014, ha affrontato il presidente uscente e successivamente rieletto, Mohamed Ould Abdel Aziz, giungendo a distanza dal vincitore, ma riuscendo in ogni caso a fare convergere su di lui circa il 9% dei consensi dell’intero Paese. Si è trattato di un evento politico di grande importanza, essendo Biram portavoce della causa anti-schiavista, osteggiata dal potere ed espressione della minoranza sfruttata degli “haratin”.
La causa dell’IRA e di Biram si identifica con quella della liberazione degli schiavi e, in particolare, come detto, degli “haratin”, parola, quest’ultima, che deriva dalla parola “libertà”, dal momento che, noti come “neri africani” e costretti per decenni al rango di schiavi dei “mori bianchi” (questi ultimi discendenti dai conquistatori arabi) divennero, formalmente, “schiavi liberati” all’indomani della prima legge abolizionista, datata 1905. La lotta di IRA ci dice così di una prospettiva di liberazione generale, che parla a tutto il Paese ed alle molteplici pratiche di schiavitù diffuse e consolidate.
«Nel nostro Paese – riportiamo le parole dello stesso Biram in occasione del suo incontro alla Casa Bianca del 2014 – vige un sistema clientelare che favorisce gli arabo-berberi in tutti i settori dell’economia nazionale: dall’estrazione mineraria, alla pesca, ai servizi. Più del 90% dei portuali e dei domestici è haratin, l’80% della popolazione analfabeta è haratin. Eppure, ancora nel 2013, solo 5 su 95 seggi dell’Assemblea Nazionale Mauritana erano occupati da questo gruppo nazionale.
«I “mori bianchi” fanno profitto, i “neri” sono meno che manodopera». Si calcola che su 3.5 milioni di abitanti, siano almeno 700 mila le persone costrette a vivere, del tutto o in parte, alle dipendenze di un “padrone”. Sono anche detti “schiavi neri”, affini alle etnie indigene (wolof, soninke, bambara, pular), che, nell’insieme, costituiscono, grosso modo, la metà dell’intera popolazione mauritana.