Reportage dal Tempio di Lalish durante lo Jazhna Jamaye, la festività più importante degli Yazidi. Un documentario che offre uno sguardo nel profondo di questa antica e martoriata minoranza.
Articolo di Nicolamaria Coppola
Il mondo sembra essersi accorto degli yazidi solo in seguito all’arrivo dei miliziani jihadisti di Daesh a Mosul e nella provincia di Niniveh. È stato in quell’occasione che si sono visti uomini, donne e bambini costretti a fuggire dalle loro case e rifugiarsi sul monte Sinjar mentre le truppe dell’ISIS entravano nella omonima città e la annettevano al loro neonato Califfato.
Le tragiche storie delle donne yazide, rapite, vendute come schiave e stuprate dagli uomini del Califfato, poi, hanno fatto inorridire tutti noi, e Vian Dakhil, la donna yazida membro del Parlamento iracheno, ha commosso il mondo con il suo appello disperato lanciato tra le lacrime all’inizio di agosto 2014: “Salvateci!”.
Noi di Epos, però, conosciamo la comunità yazida da molto prima che questa diventasse tristemente nota a causa dell’Isis. Siamo presenti nel Kurdistan Iracheno dal 2012 con un progetto finanziato dal Ministero degli Affari Esteri della Cooperazione Italiana per i rifugiati siriani che si chiama “My Future”, e nell’ottobre 2013, in tempi non sospetti, la prof.ssa Emanuela Del Re, Presidente di Epos, ha filmato un documentario sulla più importante festa yazida, Jazhna Jamaye (anche traslitterata come Cejna Cemaiya, Festa dell’Assemblea), che si svolge nel tempio di Lalish.
In quell’anno la festa fu cancellata per non meglio specificati “motivi di sicurezza”, e la cosa non ci lasciò indifferenti perché ci interrogammo su cosa avrebbe potuto significare per noi cristiani cancellare il Natale o la Pasqua per quegli stessi motivi di sicurezza. In effetti, a Erbil, capitale del Kurdistan Iracheno, in settembre vi era stato un attentato che aveva fatto alzare molto il livello di guardia. Le autorità del Kurdistan avevano creduto bene di evitare un assembramento come quello della festa yazida, e avevano, dunque, imposto di non celebrare la festa.
Imponenti le misure di sicurezza al tempio, con controlli serrati. Invitata dagli amici yazidi a partecipare alla festa nel tempio con l’intenzione di filmarla, seppur delusa dalla cancellazione la prof.ssa Del Re decise ugualmente di filmare l’atmosfera creata dalla festa “negata”. Dormendo all’aperto sulle colline che circondano i templi, ascoltando canti epici e religiosi e parlando fino a tarda notte con la famiglia che ci ospitava e altri amici yazidi, la tensione si avvertiva, perché ci veniva intimato di non avventurarci tra i boschi pattugliati da soldati armati a cui era stato ordinato di sparare a vista. Però nel tempio si celebravano i riti lo stesso.
Battesimi e rituali al tramonto con l’accensione del fuoco in mille nicchie e canti suggestivi emanavano una spiritualità misteriosa tutto intorno. Ma dei ventimila attesi solo una piccola parte era presente, e i giovani ci parlavano della loro posizione difficile nella società irachena, e del pericolo costante di essere oggetto di attacchi, pur riconoscendo l’alto grado di serenità raggiunta nel Kurdistan grazie alle politiche di rispetto delle minoranze fortemente volute dal Presidente Barzani.
I più anziani, rappresentanti religiosi e laici, parlavano con cautela, e tutti i ragazzi intervistati si dicevano felici di prendere parte ad una festa così importante ma altresì preoccupati ed incerti sul loro futuro data l’instabilità della regione. Già nell’ottobre 2013, dunque, c’erano i primi segnali di pericolo per gli yazidi, le prime avvisaglie di una tragedia che si sarebbe abbattuta sulla comunità dieci mesi dopo.
Le notizie che ancora oggi giungono dall’Iraq sono confuse e non sempre confermate, e quanti yazidi siano stati uccisi dall’inizio della crisi nessuno è in grado dirlo. Paradossali restano tuttora le descrizioni approssimative che la stampa ne ha fatto senza rendersi conto dell’enorme rischio a cui le affermazioni sbagliate li espongono. Non a caso gli yazidi sono estremamente cauti nell’aprirsi all’esterno, perché troppo spesso il loro credo è stato rappresentato come una forma “rozza” di religione, e quindi poco apprezzabile da cristiani, ebrei, musulmani.
Secondo la tradizione yazida, Melek Tā’ūs, un angelo dalle sembianze di un pavone, dopo aver rinnegato Dio ed essersi allontanato da lui, si pentì. Dopo aver riempito alcune giare con le sue lacrime, se ne servì per estinguere le sbarre di fuoco della prigione nella quale era stato confinato. L’angelo venne dunque perdonato da Dio, e da allora ha ripreso il suo posto di custode del mondo e dell’umanità. Pur essendovi diverse interpretazioni, si può dire, in sintesi, che secondo l’Islam radicale tale angelo Pavone nel Corano viene accomunato a Shaytan, Satana, e da questo deriva l’accusa agli yazidi di adorare il diavolo. Prima dell’ISIS, già Al-Qaeda in Iraq li aveva tacciati come infedeli, condannandoli a uccisioni indiscriminate.
Pur restando un credo non abramitico, lo Yazidismo si colloca alle radici delle culture indoeuropee ed è presente in Medio Oriente e in Asia da millenni. Religione fortemente sincretica, in essa confluiscono elementi dei credi pre-islamici, del Misticismo islamico, del Mitraismo, del Manicheismo, del Giudaismo cabalistico, del Cristianesimo e dello Zoroastrismo. Presenta elementi come la circoncisione, il battesimo con acqua, la credenza nella metempsicosi che proseguirà fino al giorno del Giudizio Universale in cui tutti saranno accolti in paradiso. L’adorazione del fuoco è legata allo zoroastrismo, a sua volta culto intrecciato con le culture dell’Asia da secoli. Le sacre scritture degli Yazidi sono “Il Libro della Rivelazione” e “Il Libro Nero”, ma essi hanno trasmesso il loro credo oralmente, di generazione in generazione, riuscendo così a preservare la loro fede nei secoli nonostante le persecuzioni.
La popolazione Yazida è stata decimata nel corso dei secoli attraverso conversioni forzate all’Islam e uccisioni sommarie, e quella perpetrata a partire dall’agosto 2014 dai miliziani di Daesh è considerata la settantaquattresima persecuzione di cui è stata vittima la comunità.