La cultura della nonviolenza è un’antica forma di lotta che ormai si fa strada nell’evoluzione interiore dell’essere umano, riconoscendo che il dolore ed i soprusi potranno richiedere solamente lo stesso identico schiaffo di risposta e che quindi una risposta diversa è necessaria e possibile. Abbiamo letto molto nei mesi scorsi dello sciopero della fame intrapreso dal giornalista palestinese Mohammed al-Qiq, una forma di lotta che l’uomo come altri suoi colleghi in carcere ha adottato contro la detenzione amministrativa utilizzata dal governo israeliano. Una chiara forma di repressione nei confronti della libera informazione. Al-Qiq è stato rilasciato dalle autorità il 19 maggio 2016 al check point di Mitar, a sud della città palestinese di Hebron, accolto a braccia aperte dalla sua famiglia e dagli amici a lui più cari ed intimi che in questi mesi hanno vegliato accanto al suo letto.
Tuttora restano in carcere almeno 19 giornalisti palestinesi, dei quali alcuni di loro alimentati forzatamente: una violazione totale dei protocolli medici ospedalieri. Nei primi giorni di questo maggio 2016 il premier israeliano Benjamin Netanyahu, in visita in Germania, ha dichiarato ai media la sua totale estraneità ai fatti. La stessa mattina giornalisti e blogger sfilavano nelle piazze di alcune città dei territori occupati richiedendo il rilascio dei corrispondenti detenuti ingiustamente ancora oggi. Il più giovane di essi, il fotogiornalista di 24 anni Hasan Safadi, è stato arrestato il 30 aprile di quest’anno, prelevato ad un posto di blocco venendo estratto dalla propria autovettura contro la sua volontà da alcuni militari. Poche ore dopo l’arresto del giovane alla frontiera, la polizia ha fatto irruzione nella sua casa di Beit Hanina, quartiere di Gerusalemme Est, confiscando libri e scritti del giovane e facendo così aumentare nella popolazione dei territori occupati, e non solo, ogni giorno di più la preoccupazione per l’ondata di arresti che sta invadendo il settore del giornalismo e che mina la libertà di stampa e di opinione in questi ultimi anni. Cosa accade quindi in queste ore che scandiscono la liberazione dopo i 93 giorni di digiuno del giornalista al-Qiq, durante i quali i suoi medici e legali lo hanno più volte dichiarato al limite di sopravvivenza e sempre più vicino ad una morte annunciata?
Accade semplicemente che esulteremo senza renderci conto realmente di quanto la vittoria di quest’uomo sia fondamentale e soprattutto non sia solo sua ma di tutti noi. Si tratta, in realtà, non solo di una sconfitta per il governo israeliano, ma anche della conferma del fatto che i media ed i social network, insieme alle campagne mediatiche, possono fare ai governi “cattiva pubblicità”, creando disagio all’interno dei giochi di potere che siamo abituati ad osservare ogni mattina tra un caffè e l’altro.
È ormai un luogo comune chiedersi perché alcuni uomini mettono a repentaglio la propria vita per raccontare ciò che accade dall’altro lato del mondo. Personalmente, la risposta me l’ha data poco tempo fa nel mezzo di un intervista un famoso cinereporter italiano, Sebastiano Nino Fezza, a cui ho chiesto perché dopo trent’anni imperterrito continua a raccontare, pur rendendosi conto della lentezza con cui si modificano gli eventi: “Semplice – mi ha risposto – perché raccontare è la cosa che mi riesce meglio!”