Dopo oltre trent’anni al Consiglio Comunale di Milano, di cui gli ultimi cinque come suo presidente, che cosa ti ha spinto a candidarti a sindaco?
Mi hanno spinto le spinte di chi mi chiedeva di rappresentare il desiderio di non rassegnarsi alla fine del sogno del 2011: quel sogno era fatto di passione, di entusiasmo, di capacità di stare insieme e di impegnarsi in prima persona, di voglia di cambiare questa città e non si poteva abbandonarlo. Sentivo il dovere di rappresentare quel sogno, a cui dovevo tra l’altro l’incarico di Presidente del Consiglio Comunale. Tirarsi indietro dopo che altri lo avevano già fatto avrebbe significato aggiungersi a chi lo stava affossando e io non volevo farlo.
Qual è il tuo bilancio dei cinque anni di amministrazione Pisapia?
Io respingo l’idea che tutto ciò che è stato fatto in questi anni sia da criticare. Dove si è portato avanti quel sogno, rompendo con il passato, per esempio nell’accoglienza ai migranti e ai rifugiati, il nostro operato è stato apprezzato. Dove c’è stata continuità con il passato, al contrario, sono arrivate critiche e delusioni. Penso per esempio alla scelta di non cambiare alcuni dirigenti e di mettere tutta la macchina comunale al servizio di Expo, ossia un evento che invece di porre al centro il tema del cibo, della terra, dell’acqua ecc, si è trasformato in una fiera del mondo ricco, una vetrina delle multinazionali e un vuoto divertimento serale. Un altro esempio eclatante sono gli sgomberi di case popolari e campi rom: quando prevale la spinta a rassicurare la parte più conservatrice della città si mortifica la voglia di solidarietà della parte più progressista. Accontentare chi sta in alto e umiliare chi sta in basso significa tradire il sogno del 2011.
L’attenzione agli ultimi invece è una costante del tuo impegno.
Certamente: una città generosa, che si occupa degli ultimi, è una città migliore per tutti. Gli ultimi dovrebbero essere il punto di riferimento per le azioni del Comune e qui parlo del diritto alla casa, dei diritti sociali, del reddito di cittadinanza. Una misura semplice che si potrebbe adottare subito: farsi carico di fornire ai cittadini il calcolo dell’ISE (indicatore di situazione economica) e in base a questo offrire servizi adeguati, comprese per esempio mense popolari a poco prezzo, organizzate da comitati di quartiere o anche parrocchie o il recupero dai supermercati di prodotti vicini alla scadenza, da utilizzare subito a prezzi scontati. Non si tratta di fare la carità, ma di offrire dignità e momenti di socializzazione e di affermare diritti sacrosanti.
Hai detto spesso che la gente è assetata di partecipazione. Cosa proponi per soddisfare questa esigenza?
Innanzitutto rispettare gli organi elettivi (Consigli di zona, Consiglio Comunale), invece di escluderli prendendo tutte le decisioni nella giunta. E poi pensare cose nuove. Per esempio creare momenti di incontro e confronto tra chi gestisce un servizio e chi ne usufruisce (e quindi lo conosce meglio di chiunque altro) e soprattutto utilizzare in modo nuovo lo strumento referendario. Quando si tratta di scelte importanti (come la destinazione delle aree Expo), la giunta dovrebbe proporre ai cittadini delle opzioni precise, dei progetti concreti e credibili, consultarli e poi rispettare le loro decisioni. Penso a consultazioni agili, senza troppi intoppi e requisiti burocratici. L’umiltà e il rispetto dei cittadini dovrebbero essere la prassi, il modo di operare di un’amministrazione giusta.
All’assemblea alla Camera del Lavoro che ha lanciato la lista “Milano in Comune” e la tua candidatura a sindaco, hai iniziato il tuo intervento ringraziando chi ha condiviso con te tante battaglie, poche vittorie e molte sconfitte. Che cosa ti ha aiutato a non scoraggiarti e a mantenere vivo l’impegno in tutti questi anni?
La certezza di “fare la cosa giusta” al di là dei risultati. La gioia e la soddisfazione che questo mi procura. Infatti dopo le sconfitte ci siamo sempre risollevati.
Tutti, avversari compresi, ti riconoscono una profonda coerenza. Cosa significa per te essere coerenti?
Ancora una volta “fare la cosa giusta”, non quella più conveniente. Esercitare la libertà di giudizio senza lasciarsi condizionare da interessi esterni. Potersi guardare in faccia ogni mattina senza vergognarsi delle proprie azioni. Quando sono entrato in Consiglio Comunale, negli anni Ottanta, regnava quel consociativismo che temo stia ritornando, ma grazie a questa educazione alla libertà io ho potuto comportarmi come il bambino della favola e quando era necessario gridare: “Il re è nudo!”