Julia Cagé (moglie dell’economista Thomas Piketty) è l’autrice di “Salvare i media”, un saggio molto scorrevole, molto meditato e ben articolato (Bompiani, 2016, 122 pagine, euro 16).
La crisi dei media non è nata ieri, anche se in questi ultimi anni ha chiaramente accelerato la sua evoluzione: “Anche negli Stati Uniti, per eccellenza il paese della pubblicità, gli introiti pubblicitari dei giornali sono, se rapportati al Pil, in calo costante dal 1956!” (p. 8). La Francia ha perduto alcuni quotidiani e altri sono quasi falliti. “In Germania, nel 2013, sono stati soppressi più di mille posti di lavoro; in Spagna, tra il 2008 e il 2013, sono sparite quasi 200 testate”.
Dal 2005, da prima della crisi del 2008, le entrate pubblicitarie sono diminuite in senso assoluto e “la quota derivante dalla pubblicità nelle entrate dei giornali è diminuita in misura altrettanto forte… la raccolta pubblicitaria corrisponderà ben presto a molto meno della metà delle entrate complessive dei giornali americani… la crescita del volume d’affari deriva ormai quasi interamente dall’aumento degli abbonamenti. In Francia, se consideriamo gli ultimi quarant’anni, la pubblicità non ha mai superato la metà del volume d’affari dei giornali stessi” (p. 46). Negli Stati Uniti fino a pochi anni fa “la pubblicità ha rappresentato più dell’80 per cento del reddito dei giornali” (p. 84).
E “il problema non è solo la debolezza del mercato pubblicitario digitale… ma è il fatto che un piccolo numero di società tenda ad appropriarsi della fetta più grossa della torta” (Google, Facebook e a breve Amazon). Infatti “nel 2013, con un volume d’affari inferiore ai 32 miliardi di dollari, il peso dei giornali americani sull’economia del paese è due volte inferiore a quello di Google” (p. 50). È soprattutto la torta del moderno native advertising, calibrato sui contenuti che il lettore sta approfondendo, che viene riservata alle grandi multinazionali nate nel Web.
Oltretutto il grado di fiducia nei confronti della categoria dei giornalisti si sta riducendo in tutti i paesi. In effetti ancora oggi, in troppi casi, i giornali hanno semplicemente il compito di garantire delle relazioni pubbliche rassicuranti per i gruppi politici, i gruppi finanziari e i gruppi industriali.
Anche nei “media nati sul modello non profit, tipo www.propublica.org, creata nel 2008 da due miliardari americani, Herbert e Marion Sandler… il potere resta nelle mani di chi detiene il capitale” (p. 11). Il caso francese di www.mediapart.fr, che ha valorizzato il giornalismo investigativo, è la classica eccezione che conferma la regola. Il sito ha rinunciato alla pubblicità e si sostiene grazie agli abbonamenti. Invece il Guardian fa capo a una fondazione non profit, nata nel 1936. Nonostante la crisi i lettori online sono in aumento e c’è ancora tanto spazio per le inchieste.
In definitiva Julia Cagé propone per le nuove aziende mediatiche un nuovo statuto di “associazione non profit”, a metà strada tra quello delle fondazioni e quello delle società per azioni, in modo da rendere i media indipendenti dagli azionisti esterni, dagli inserzionisti e dai poteri pubblici. Un nuovo statuto potrebbe permettere ai piccoli azionisti di avere più diritti di voto, “in modo da favorire un avvicendamento del potere e delle persone” (p. 90).
Del resto secondo l’economista francese ci sono due grandi pericoli per le attuali organizzazioni mediatiche. Il primo è il rischio di diventare la preda prediletta di qualche miliardario in cerca di potere. Il secondo è quello di diventare proprietà dei soli dipendenti: il giornalismo autogestito dai lavoratori senza esperienze manageriali ha quasi sempre una vita molto breve. In ogni caso tra le professioni intellettuali superiori “la quota rappresentata dei giornalisti, a partire dal 1965”, va diminuendo in Francia in modo impressionante (grafico a pagina 25).
Forse il problema principale è quello di rendere una piattaforma mediatica veramente indipendente, fin al punto da farla lavorare senza aver bisogno di un supporto bancario diretto. Infatti tutti i grandi media alla fine dei conti servono per difendere gli interessi delle banche e dei gruppi industriali che eludono le tasse con artifici legali internazionali e che lavorano spesso in perdita grazie agli enormi prestiti delle banche.
Il più grosso contropotere è la cultura e il compito principale dei media dovrebbe essere quello di “diffondere e rendere accessibili nella maggior misura consentita i saperi e i beni culturali prodotti dai grandi attori dell’economia della conoscenza” (p. 25). Quindi in mancanza di veri giornalisti professionisti indipendenti, chi può diventare un attivista culturale o un divulgatore scientifico? E se il numero di media attivi e utili è limitato, “Che importanza ha il tipo di supporto?” (p. 118).
Julia Cagé insegna Economia preso il Dipartimento di Economia e Scienze a Sciences Po, Parigi. Ha completato gli studi di studi di dottorato presso l’Harvard University e i suoi interessi si sono focalizzati sull’economia politica, la storia economica e l’organizzazione industriale.
Per approfondimenti video: www.youtube.com/watch?v=TQYXLnGAfL0&noredirect=1 (EPOG seminar in inglese, 2015), www.youtube.com/watch?v=2QBUcTbymdg (intervista in francese, settembre 2015); www.youtube.com/watch?v=TQYXLnGAfL0&noredirect=1 (in inglese, novembre 2015); www.youtube.com/watch?v=WmCg7INmoKE (dibattito in francese, febbraio 2016).
Nota – Bisogna considerare che “il tempo dedicato alla lettura del cartaceo è molto maggiore… Su un sito di informazione gli internauti passano meno di 5 minuti al giorno, dedicando meno di un minuto a pagina… le entrate digitali effettive degli editori restano modeste. In Francia, nel 2012, le entrate di Internet sono risultate inferiori del 5 per cento a quelle dei giornali su carta… Un lettore del cartaceo frutta così un numero di entrate pubblicitarie venti volte superiore a quello delle entrate assicurate da un lettore online” (p. 61).
Nota bancaria – Per sapere chi è all’apice del potere in una società basta verificare quale categoria di persone non finisce mai o quasi mai in prigione.
Nota finale – Il mondo dell’informazione non è simile al mondo della produzione. Ad esempio negli stabilimenti automobilistici “la manodopera necessaria alla produzione varia a seconda della domanda: si producono meno vetture con meno dipendenti, ecco tutto… Se un giornale decide di ridurre il numero dei redattori per compensare le conseguenze della riduzione del suo volume d’affari, il tutto andrà a discapito della qualità, la quale” registrerà un inevitabile calo (p. 51).