Di certo si può tentare una lettura dell’attualità, dei suoi conflitti e dei suoi disequilibri alla luce della categoria dei diritti. Altrettanto indiscussa rimane l’idea che il principio di fratellanza cui fa riferimento proprio in apertura la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (art. 1)[1] approvata e proclamata il 10 Dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dovrebbe sostanziare in modo basilare, sempre e comunque, il modo con cui ciascuno guarda all’alterità.
La tendenza dell’analisi critica, sociale e politica del presente volta a smorzare in modo deresponsabilizzante la valenza pratica ed efficace delle grandi categorie di un’etica della fratellanza universale, a vantaggio di un utilizzo di forme del discorso che si orientano verso orizzonti di “teoreticità”, non ha fin qui fornito grande supporto nel tentativo di leggere all’interno dei conflitti, ma nemmeno di porvi fattivamente rimedio senza chiamare in causa l’utilizzo di una ulteriore violenza in risposta a quella originaria. Il criterio alterità, già centrale in tutta la filosofia del ‘900 e presente anche in Nietzsche all’interno di una dialettica dell’amore di sé e del prossimo[2] – non a caso evocativa delle forti radici cristiane – diviene oggi idea concettuale che presto sussume, paradossalmente, la differenza garantita e rappresentata dall’altro, poiché questa è anzitutto ricchezza e vita, all’interno di un nuovo ordine unico in cui la sua specificità essenziale svanisce: l’altro. Il tentativo di configurare l’azione politica mediante un approccio capace di de-centrarsi rispetto alle dimensioni valoriali condivise, siano esse a sfondo laico o legato ai diversi credo, ha il sapore di un costruttivo tentare il superamento di quel quantum di violenza che le divergenze, nella loro fanatica accentuazione, possono comportare. D’altra parte però si finisce per svuotare la dimensione comune della vita associata (Cfr. art. 18), da cui discende la possibilità della condivisione e dell’azione, dalle proprie stesse radici pratiche e dai suoi criteri orientativi più intimamente sentiti. Ciò si traduce in un progressivo appiattimento delle esigenze e della comunicazione su un piano di genericità che ha già rinunciato al differire degli altri ed è così pronto ad essere, a sua volta, riutilizzato dai poteri forti del mercato, del lavoro e della politica, ai fini della amplificazione del sentimento di impotenza. In altri termini, se non ci si svincola dalle morse dell’incidenza pratica e linguistica dei criteri usuali del discorso politico e sociale, pronte a ridurre finanche la differenza all’ordine dell’immediatamente manipolabile, sia in senso discorsivo che psicologico, difficilmente si potrà venire a capo, in modo costruttivo, di una fruttuosa analisi della crisi attuale. La violenza che questa porta con sé si manifesta, nel suo sorgere e ripresentarsi con cadenza ciclica e in diverse aree del mondo, intrecciata in modo sottile a storie e genesi difficilmente riconducibili ad un unico ordine di interpretazione e spiegazione: sia questo quello religioso, sociale o quello più marcatamente storico-economico con riferimento ai momenti centrali del destino dell’Europa e dell’Occidente determinato dalle scansioni traumatiche delle due guerre mondiali. Non si fa nota di questo dato perché si ritengono la spiegazione e la comprensione, considerate in se stesse, dei fini che possano e debbano reclamare preminenza, affermando ancora una volta, esigenze, in tal caso di carattere gnoseologico (conoscitivo) e astratto, che si imporrebbero in modo assoluto nella loro autonomia fondante rispetto alla prassi. Al contrario, se non si è compreso e preso atto in modo concreto delle specificità coinvolte nelle dinamiche particolari al momento presenti nel teatro mondiale, difficilmente si potrà operare, con i giusti mezzi, tempi e strategie al fine di porre rimedio alle drammatiche criticità cui ogni giorno assistiamo.
Il primo diritto dell’alterità è quello di non poter essere ricondotta ad uno schema univoco che ne misuri costantemente l’essenza. Secondo la magistrale lezione sartriana[3], la precedenza dell’esistenza – apertura possibile e costitutiva alla/della vita vissuta – rispetto all’essenza, poteva generare nuove prospettive pratiche all’interno di un circolo virtuoso, come nell’ammonimento pindarico[4] “Divieni ciò che sei!” non a caso ripreso più volte da Nietzsche[5], capace di dare vita ad una nuova essenza.
Il sogno, ancora possibile, di una umanità ritrovata a partire dall’affermazione di uno spirito di fratellanza tra popoli, culture, nazioni può e deve essere garantito e pensato prendendo le mosse dal rispetto e dalla certificazione dei diritti; constatazione, questa, fondata sulla stessa esperienza consegnataci dalla storia. Il Preambolo alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, espressamente stabilisce «che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo» e rileva, per diretta conseguenza, che «il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo».
È allora determinante il saper individuare fin dove si estende la negazione dei diritti; mentre, al contempo, assume un nuovo senso il chiedersi se la semplice dichiarazione giuridico-legislativa del diritto, con tutte le sue implicazioni, possa essere pensata come nudo atto risolutivo ai fini della creazione di una società più giusta, ispirata ad un principio d’amore tra i viventi e che, quindi, persegua realmente la pace. Ciò a fronte dell’imperversare di interessi economici centrati sulla promozione dei conflitti e sulla funzionale incentivazione del disordine in merito ad istanze che riguardano tanto i rapporti micro-comunitari, quanto quelli macroscopici che fanno da pendant alla crescente globalizzazione. Basta guardare il diritto al lavoro sancito dalla Costituzione della Repubblica Italiana (art. 4), come quello alla casa (art. 3, 47), per accorgersi come il semplice atto dichiarativo esiga un movimento globale e specifico di rivendicazione e di presa di coscienza nonviolente capaci di costruire forme realmente democratiche di partecipazione al bene comune per poter tradursi in realtà. A questi due ambiti si lega necessariamente la questione, sulla quale si è ampiamente soffermato Jonas, circa il futuro delle prossime generazioni[6]. Quest’ultimo aspetto chiama in causa sia il diritto al matrimonio e alla fondazione di una famiglia sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (art. 16, 1-2-3), che problematiche ecologiche che non pongono in risalto unicamente l’esigenza di un recupero del rapporto dell’umano con la natura secondo criteri ispirati ad un’etica dell’equilibrio e del rispetto, ma anche e soprattutto il tanto discusso portato della forma di relazione che il mondo industrializzato e cibernetico ha istituito con il denaro e la ricchezza.
La crisi si tocca con mano, attraversando e coinvolgendo i primissimi nuclei aggregativi e riproduttivi delle società (famiglia, casa, lavoro, libertà di espressione, rapporti tra i sessi etc.), fino a ciò che riguarda un’idea di convivenza tra stati e nazioni minata sempre più da particolarismi pronti a innescare sempre nuovi conflitti (incidenza dell’elemento religioso, economico, vecchie e nuove forme di colonialismo e di schiavitù etc.). Allora un ripensamento della categoria dell’“altro” secondo una prospettiva etica e valoriale ispirata ad un profondo sentimento di amorevole fratellanza si mostra, se non l’unica, una delle scelte imprescindibili da mettere in atto – ciascuno – qui e subito. Scelta decisiva per iniziare a gettare le basi di nuove forme di convivenza etica che, sebbene possano comportare anche la necessità a qualche rinuncia, rispetto agli egoistici canoni appropriativi del primo mondo, possono rappresentare la via per iniziare a condurre se stessi e gli altri al di là del vuoto di un presente altrimenti inesorabilmente segnato entro l’orizzonte del dolore e dell’impotenza.
[1] http://www.ohchr.org/EN/UDHR/Pages/Language.aspx?LangID=itn.
[2] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, trad. it. di M. Montinari, a c. di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1995, pp. 67-68.
[3] J.-P. Sartre (1945), L’esistenzialismo è un umanismo, trad. it. di G. Mursia Re, Mursia Editore, Milano, pp. 24-25.
[4] Si veda: https://it.wikipedia.org/wiki/Locuzioni_greche
[5] F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. it. di F. Masini, a c. di G. Colli, Adelphi, Milano 1993, § 335, p. 241.
[6] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P. P. Portinaro, Einaudi, Torino 2002.