Di Miriam Rossi – 24 febbraio 2016
Alla fine di gennaio Amnesty International aveva sollevato l’attenzione mondiale denunciando la presenza di fosse comuni vicino a Bujumbura, la capitale del Burundi; le immagini satellitari rivelavano ciò che da tempo si temeva sulle brutali violenze del regime retto da Pierre Nkurunziza. La drammatica notizia giungeva contestualmente al 26° Vertice dell’Unione Africana (UA) che si apriva ad Addis Abeba, in Etiopia, prima con il Consiglio Esecutivo dei ministri degli Esteri (27-28 gennaio) e poi con l’Assemblea dei Capi di Stato e di Governo (30-31 gennaio), a dare voce e spazio mediatico ai leader del continente africano.
La situazione in Burundi era parsa fin dalla vigilia del Summit di una gravità tale da richiedere l’adozione di una inderogabile soluzione. Per la stessa ragione, già alla metà di dicembre il Consiglio per la pace e la sicurezza (Cps) dell’UA aveva previsto il dispiegamento nel piccolo Paese dell’Africa centrale di una forza di pace di 5mila uomini a salvaguardia dei civili. Eppure, negando la violenza diffusa e tantomeno la sussistenza di un pericolo imminente di genocidio, la tenace opposizione del governo burundese ha impedito l’invio della missione di peacekeeping tanto alla fine del 2015 quanto all’indomani del Vertice dell’UA di alcune settimane fa su cui la comunità internazionale aveva riposto le sue speranze. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, il Dipartimento di Stato americano, l’Unione Europea avevano infatti sostenuto con forza l’invio di truppe dell’Unione Africana in Burundi, che lo Stato fosse o meno concorde sull’operazione. Una opzione possibile su decisione adottata dai due terzi dei 54 membri dell’Organizzazione regionale in caso di “circostanze gravi, come crimini di guerra, genocidio, e crimini contro l’umanità”. Tuttavia appare evidente che se questa decisione fosse effettivamente assunta si tratterebbe di un primo caso foriero di aprire la strada a operazioni analoghe in altri Paesi africani attraversati da conflitti civili: un rischio che nessun Capo di Stato è disposto a correre.
Le violenze in Burundi sono scoppiate la scorsa primavera a seguito della decisione del presidente Pierre Nkurunziza di avanzare la propria candidatura al terzo mandato presidenziale, in spregio alle disposizioni costituzionali che prevedono un massimo di due mandati per ogni Capo dello Stato. Le proteste montate da allora, e in particolare dopo le elezioni di luglio e lo scontato esito elettorale che designava nuovamente Nkurunziza alla presidenza del Paese secondo elezioni definite dalla missione di osservazione del voto dell’ONU “né libere né credibili né inclusive”, sono state sistematicamente represse, facendo piombare il Burundi in una guerra civile dalle tinte particolarmente fosche.
Nkurunziza è infatti al potere da quando nel 2005 furono siglati gli accordi di pace che misero fine al conflitto interno su basi etniche durato ben 12 anni, durante il quale l’esercito burundese, composto prevalentemente da tutsi, uccise centinaia di migliaia di hutu dopo aver assassinato anche il primo presidente hutu del Paese, Melchior Ndadaye, democraticamente eletto. I messaggi di odio etnico trasmessi oggi alla radio nazionale burundese delineano un triste presagio, quale quello che segnò l’avvio dello spaventoso genocidio verificatosi nel 1994 nel vicino Ruanda, dove però le vittime furono i tutsi per mano degli hutu. Secondo alcuni analisti, esiste un chiaro progetto politico di genocidio da parte del regime burundese che è già in atto; diversamente da quanto accaduto in Ruanda nel 1994 però, invece che attuarlo in forme massive (allora in appena 100 giorni di massacri indicibili), si è preferito procedere in maniera progressiva, seppur decisa, così da non suscitare l’attenzione mediatica che un’operazione di massa potrebbe avere.
Ed è proprio in territorio ruandese che vivono ad oggi 70mila cittadini di passaporto burundese che, secondo indiscrezioni, sarebbero prossimi all’espulsione da parte del governo di Kigali; una decisione maturata in seguito alla pubblicazione da parte dell’agenzia di stampa Reuters di un report ONU che denunciava prove del coinvolgimento delle autorità ruandesi nella costituzione di milizie paramilitari armate destinate a rientrare in Burundi per destituire Nkurunziza dal potere. L’innalzamento della tensione dentro il Burundi e nell’intera regione dei Grandi Laghi è funzionale agli interessi strategici e alle aspirazioni geo-politiche tanto di Burundi quanto del Ruanda, ma non è disdegnata neanche da Uganda e Repubblica Democratica del Congo, già attori dei conflitti che sconvolsero l’area tra la fine degli anni Novanta e l’avvio del nuovo millennio. Ulteriori tasselli di una storia recente che conferisce alla conflittualità etnica solo un pretesto per l’acquisizione di interessi, beni, poteri di tutt’altro genere.
Alle quotidiane violenze registrate nel Paese e alla situazione dei profughi fuggiti nei territori limitrofi si unisce anche la drammatica crisi economica in corso. Il conflitto ha determinato una diminuzione di un quarto delle entrate fiscali del Paese e al contempo la forte militarizzazione ha comprensibilmente prosciugato le casse dello Stato. L’OCHA, l’Ufficio ONU per il coordinamento degli affari umanitari, stima che a circa 700mila burundesi manchino del cibo necessario per vivere: si tratta del 7% della popolazione di un Paese in cui, già prima dell’attuale conflittualità, l’80% dei cittadini viveva al di sotto della soglia di povertà e soffriva di malnutrizione.
Se in più occasioni è stato ripetuto, anche recentemente, che l’Africa non permetterà inerte un altro genocidio, e l’intera comunità internazionale e le istituzioni mondiali hanno condiviso tale impegno, tuttavia ad oggi manca un disegno strategico che interrompa la spirale di violenze in cui il Burundi da troppi mesi è precipitato. L’arrivo questo lunedì a Bujumbura del Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon appare un nuovo, flebile tentativo di sbloccare la crisi: si spera sia l’inizio di una nuova storia.