di Rocco Artifoni
Per i costituenti il sistema fiscale (art. 53) avrebbe dovuto essere la cassa della solidarietà (art. 2). Analizzando la relazione presentata da Ernesto Maria Ruffini, amministratore delegato di Equitalia, ascoltato in commissione Finanze del Senato all’inizio di febbraio, emerge come il fisco italiano in realtà assomigli molto ad un colabrodo.
Il dato che più colpisce è l’enorme cumulo di crediti non riscossi a partire dall’anno 2000: ammonta a 1.058 miliardi di euro, circa la metà del debito pubblico italiano. A conferma che chi sostiene da tempo la stretta connessione tra evasione fiscale e debito pubblico non è fuori strada.
Da un’analisi più dettagliata di quei crediti emergono molte indicazioni divergenti e interessanti. Anzitutto si ammette che 217 miliardi sono stati annullati dagli stessi enti creditori, in quanto riconosciute come richieste indebite. Questo dato ci segnala che tra le cartelle non riscosse per oltre il 20% si tratta di errori del fisco. Una percentuale non da poco.
Le somme corrette non riscosse scendono quindi a 841 miliardi. Di questi ben 307 miliardi sono crediti difficilmente recuperabili, poiché sono dovuti da soggetti falliti o nullatenenti. Qui emerge un altro aspetto piuttosto complesso: da un lato la fragilità delle imprese e l’indigenza di troppe famiglie, dall’altro i professionisti dei fallimenti e la diffusa pratica dell’elusione fiscale. Purtroppo il sistema italiano di fatto consente ai furbi di fallire sulle spalle degli altri e in ultima istanza della collettività. Mentre gli evasori nascondono patrimoni mobiliari con il pagamento in nero e immobiliari attraverso prestanome.
Restano 534 miliardi di cui quasi il 60% corrisponde a posizioni per cui si sono tentate invano azioni esecutive. E qui si vede che il fisco non è poi così “famelico” come spesso si dice: ci sono circa 315 miliardi che il “gigante cattivo” non è riuscito a portare a casa.
Per altri 28 miliardi la riscossione è sospesa per forme di autotutela o sentenze e ci sono ulteriori 34 miliardi che non possono più essere riscossi per l’approvazione di norme a favore dei contribuenti debitori.
Tenendo conto degli 81 miliardi già riscossi nei contenziosi e dei 25 miliardi dei pagamenti rateizzati, secondo Equitalia la somma su cui realisticamente si può lavorare per un’efficace riscossione è ridotta a 51 miliardi di euro. Cioè il 5% del dato iniziale: incredibile, ma vero. Resta sempre una grande cifra, maggiore dell’ultima manovra economica, ma che non può coprire nemmeno gli interessi annuali sul debito pubblico.
L’amministratore di Equitalia ha definito il problema delle cosiddette quote inesigibili una “patologia estrema”. Possiamo intendere la frase in due sensi: la crescente povertà acclarata dalle statistiche e la storica propensione italiana ad evadere le imposte. In altre parole, non pagano le tasse gli indigenti ma anche i criminali. In un certo senso sono due facce della stessa medaglia, poiché i soldi evasi da mafiosi ed evasori sono risorse sottratte alle politiche per ridurre la povertà.
Anche il fisco ha le sue colpe, ma i dati mostrano una migliore efficacia. Nel periodo dal 2000 al 2005 le concessionarie private hanno recuperato in media ogni anno 2,9 miliardi. Dal 2006 con la competenza passata ad Equitalia, nonostante l’avvento della crisi economica, la media annua è salita a 7,7 miliardi. L’intesse pubblico almeno in questo caso è stato tutelato meglio dal pubblico.
Resta il fatto che l’evasione annua delle imposte è stimata tra i 120 e i 180 miliardi di euro. Equitalia riesce a recuperarne soltanto il 5%. È evidente che servono più strumenti e risorse per gli esattori, ma anche le normative devono essere radicalmente riviste. Il sistema fiscale funziona male e il cesto (in latino “fiscus”) della cassa comune purtroppo è pieno di buchi.