Dopo l’annuncio di Pyongyang di aver effettuato il test sotterraneo di una bomba nucleare all’idrogeno, il presidente Obama, pur mettendo in dubbio che si tratti veramente di una bomba all’idrogeno, chiede «una risposta internazionale forte e unitaria al comportamento incosciente della Corea del Nord». Dimentica però che sono stati proprio gli Usa a fornire alla Corea del Nord le più importanti tecnologie per la produzione di armi nucleari. Lo documentammo sul manifesto 13 anni fa (5 febbraio 2003).
La storia inizia quando – dopo essere stato segretario alla difesa nell’amministrazione Ford negli anni Settanta e, negli anni Ottanta, consigliere del presidente Reagan per i sistemi strategici nucleari – Donald Rumsfeld entra a far parte nel 1996 del consiglio di amministrazione della ABB (Asea Brown Boveri), gruppo leader nelle tecnologie per la produzione energetica. Rumsfeld esercita subito la sua influenza per far avere alla ABB l’autorizzazione di Washington a fornire tecnologie nucleari alla Corea del Nord, nonostante essa abbia già un programma nucleare militare. Neppure tre mesi dopo, il 16 maggio 1996, il Dipartimento statunitense dell’energia annuncia di aver «autorizzato la ABB Combustion Engineering Nuclear Systems, una consociata interamente controllata dalla ABB, a fornire una vasta gamma di tecnologie, attrezzature e servizi per la progettazione, costruzione, gestione operativa e mantenimento di due reattori nella Corea del Nord».
Il Dipartimento statunitense dell’energia – responsabile non solo del nucleare civile, ma anche della produzione di armi nucleari – sa che tali reattori possono essere usati anche a scopi militari, e che le conoscenze e tecnologie fornite possono anch’esse essere utilizzate per un programma nucleare militare. La ABB può così stipulare nel 2000 con la Corea del Nord due grossi contratti per la «fornitura di componenti nucleari». In quel momento Rumsfeld è ancora nel consiglio di amministrazione della ABB, da cui si dimette nel gennaio 2001, quando assume l’incarico di segretario alla difesa nell’amministrazione Bush.
Nel 2003, la Corea del Nord annuncia il suo ritiro dal Trattato di non-proliferazione (Tnp), a cui aveva aderito nel 1985. I «colloqui a sei» (Usa, Russia, Cina, Giappone, Nord Corea, Sud Corea) per il suo rientro nel Tnp, subito iniziati, si interrompono nel 2006 quando la Corea del Nord effettua il primo dei suoi quattro test nucleari. Successivamente riprendono, ma si interrompono di nuovo nel 2009. La responsabilità non è solo di Pyongyang. Poiché il Trattato di non-proliferazione continua ad essere violato anzitutto dagli Stati uniti, primi firmatari, a Pyongyang sono arrivati alla cruda conclusione che è meglio avere le armi nucleari che non averle.
Il Tnp obbliga gli Stati dotati di armi nucleari a non trasferirle ad altri (Art.1), e gli Stati non in possesso di armi nucleari a non riceverle (Art. 2). Obbliga allo stesso tempo tutti gli Stati firmatari, a partire da quelli con armi nucleari, ad adottare «effettive misure per la cessazione della corsa agli armamenti nucleari e il disarmo nucleare» fino a «un Trattato che stabilisca il disarmo generale e completo» (Art. 6). Obbliga inoltre tutti gli Stati firmatari a «rinunciare, nelle loro relazioni internazionali, all’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato» (preambolo).
L’esempio di come si debba operare per il disarmo nucleare, lo danno soprattutto gli Stati uniti. Essi hanno varato un piano, del costo di 1000 miliardi di dollari, per potenziare le forze nucleari con altri 12 sottomarini da attacco, armato ciascuno di 200 testate nucleari, e 100 nuovi bombardieri strategici, ciascuno armato di oltre 20 testate nucleari. Contemporaneamente, violando il Tnp, stanno per schierare in cinque paesi Nato – quattro europei più la Turchia, che violano anch’essi il Tnp – circa 200 nuove bombe nucleari B61-12, di cui circa 70 in Italia con una potenza equivalente a quella di 300 bombe di Hiroshima. Le forze nucleari Usa/Nato, comprese quelle francesi e britanniche, dispongono di circa 8000 testate nucleari, di cui 2370 pronte al lancio, a fronte di altrettante russe, tra cui 1600 pronte al lancio. Aggiungendo quelle cinesi, pachistane, indiane, israeliane e nordcoreane, il numero totale delle testate nucleari viene stimato in 16300, di cui 4350 pronte al lancio. E la corsa agli armamenti nucleari prosegue soprattutto con la continua modernizzazione degli arsenali.
Come si debba «rinunciare all’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato», lo dimostrano sempre gli Stati uniti e la Nato. Con la prima guerra contro l’Iraq nel 1991, la Jugoslavia nel 1999, l’Afghanistan nel 2001, l’Iraq nel 2003, la Libia nel 2011, la Siria dal 2013. E nel 2014 con il colpo di stato in Ucraina, funzionale alla nuova guerra fredda e al rilancio della corsa agli armamenti nucleari. Per questo la lancetta dell’«Orologio dell’apocalisse», il segnatempo simbolico che sul «Bulletin of the Atomic Scientists» indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare, è stata spostata da 5 a mezzanotte nel 2012 a 3 a mezzanotte nel 2015. Ciò a causa non tanto del «comportamento incosciente» di Pyongyang, quanto del «comportamento cosciente» di Washington.