Un 5 gennaio nasceva Peppino Impastato, un 5 gennaio la mafia assassinava Pippo Fava. Anche quest’anno a Catania Pippo sarà ricordato in un incontro pubblico dal significativo titolo “Ricordiamo Pippo Fava lavorando”. Salvo Vitale, Umberto Santino e altri compagni di Peppino da sempre lo ricordano denunciando mafie e connivenze, continuando a fare nomi, cognomi, intrecci e affari. La “commemor-azione”, il ricordare proseguendo sul cammino su cui ci hanno preceduto, è l’unica rispettosa e degna. Oggi come tutto l’anno Peppino e Pippo non devono essere santi per laici altari ma “fuoco che deve arderci dentro”.
In quello che probabilmente è il suo articolo più conosciuto Pippo Fava esordì scrivendo “Io ho un concetto etico del giornalismo”. Anche soltanto alcuni passaggi di quell’articolo probabilmente sintetizzano egregiamente il “concetto etico” e la lezione, l’esempio da seguire di Pippo Fava.
Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. Pretende il funzionamento dei servizi sociali. Tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero. Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze. Le sopraffazioni. Le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento! Ecco lo spirito politico del Giornale del Sud è questo! La verità! Dove c’è verità, si può realizzare giustizia e difendere la libertà! Se l’Europa degli anni trenta-quaranta non avesse avuto paura di affrontare Hitler fin dalla prima sfida di violenza, non ci sarebbe stata la strage della seconda guerra mondiale, decine di milioni di uomini non sarebbero caduti per riconquistare una libertà che altri, prima di loro, avevano ceduto per vigliaccheria. E’ una regola morale che si applica alla vita dei popoli e a quella degli individui. A coloro che stavano intanati, senza il coraggio di impedire la sopraffazione e la violenza, qualcuno disse: “Il giorno in cui toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, né la vostra voce sarà così alta che qualcuno possa venire a salvarvi!”
Sul film “I cento passi” ho sempre avuto un giudizio contrastato. Perché diverse scelte del film, che come scrisse Salvo Vitale anni fa sono “concessioni cinematografiche”, sinceramente non le ho mai capite. Nel film non traspare minimamente, per esempio, il rivoluzionario Peppino (anzi, in una delle scene più famose ed emozionanti vien fatto dire a Peppino che la lotta politica e la coscienza di classe sono fesserie) così come non si comprende l’esigenza scenica di far apparire l’occupazione della radio come un atto solitario (che non fu) del solo Peppino. Eppure, ogni volta che lo vedo mi commuovo e mi emoziono. Perché, nonostante tutto, quel film trasmette e colpisce al cuore. E proprio con tre frasi del film vorrei oggi commemorare Peppino, non so se realmente siano state pronunciate (e se esattamente così) ma credo ben sintetizzino quel fuoco che oggi dovrebbe arderci dentro. Perché ieri come oggi la “tentazione” di ritirarsi a vita privata, di farsi gli “affari propri”, di voltarsi dall’altra parte erode le coscienze civili, s’annida nei tessuti sociali. E alla fin fine il fatalismo, il “non serve tanto non cambierà mai nulla”, “chi comanda fa legge” et similia si diffonde. E i mafiosi, le clientele, le oppressioni e le sopraffazioni sembrano normali, aii mafiosi e ai colletti bianchi, ai padroni e agli eversivi “delle classi dirigenti” ci si abitua, ci si convive, non ci si accorgerà più di niente. E avranno vinto loro. E Peppino e Pippo saranno stati ancora uccisi.
“Ah, u’zu Tanu c’abita qua! Cento passi ci sono da casa nostra, cento passi! Vivi nella stessa strada, prendi il caffè nello stesso bar, alla fine ti sembrano come te! «Salutiamo zu’ Tanu!» «I miei ossequi, Peppino. I miei ossequi, Giovanni». E invece sono loro i padroni di Cinisi! E mio padre, Luigi Impastato, gli lecca il culo! Come tutti gli altri! Non è antico, è solo un mafioso, uno dei tanti! […]Mio padre! La mia famiglia! Il mio paese! Io voglio fottermene! Io voglio scrivere che la mafia è una montagna di merda! Io voglio urlare che mio padre è un leccaculo! Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgerci più di niente!”
“I balconcini, ‘a gente ci va a abitare e ci mette… le tendine, i gerani, la televisione e dopo un po’ tutto fa parte del paesaggio, c’è, esiste, nessuno si ricorda più di com’era prima, non ci vuole niente”
“Adesso fate una cosa: spegnetela questa radio, voltatevi pure dall’altra parte, tanto si sa come vanno a finire queste cose, si sa che niente può cambiare. Voi avete dalla vostra la forza del buonsenso, quella che non aveva Peppino. Domani ci saranno i funerali. Voi non andateci, lasciamolo solo. E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo. Ma non perché ci fa paura, perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace. Noi siamo la mafia. E tu Peppino non sei stato altro che un povero illuso, tu sei stato un ingenuo, sei stato un nuddu miscato cu niente” (Salvo Vitale)