Un importante anniversario va ricordato nel quadro del 25° della prima guerra del Golfo: essa è la prima guerra a cui partecipa la Repubblica italiana, violando il principio, affermato dall’Articolo 11 della Costituzione, che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».Nel settembre 1990, su decisione del sesto governo Andreotti, l’Italia invia nella base di Al Dhafra negli Emirati Arabi Uniti una componente aerea di cacciabombardieri Tornado. Nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1991, 8 Tornado italiani decollano per bombardare obiettivi iracheni stabiliti dal comando Usa, in quella che l’Aeronautica ricorda ufficialmente come «la prima missione di guerra compiuta dall’Aeronautica italiana, 46 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale».
A questa missione (durante la quale un Tornado viene abbattuto e i due piloti fatti prigionieri) seguono altre missioni di bombardamento sempre sotto comando Usa, per complessive 226 sortite, tutte «coronate da pieno successo». Si aggiungono 244 missioni italiane di velivoli da trasporto e 384 di velivoli da ricognizione, «operanti in Turchia nel quadro della Ace Mobile Force Nato» (a conferma che la Nato, pur senza intervenire ufficialmente, partecipa in realtà alla guerra con sue forze e basi).
Questa «prima missione di guerra» è decisiva per il varo del «nuovo modello di difesa» subito dopo la guerra del Golfo, sulla scia del riorientamento strategico Usa/Nato.
Nell’ottobre 1991 il Ministero della difesa pubblica il rapporto «Modello di Difesa / Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni ’90». Il documento riconfigura la collocazione dell’Italia, definendola «elemento centrale dell’area geostrategica che si estende unitariamente dallo Stretto di Gibilterra fino al Mar Nero, collegandosi, attraverso Suez, col Mar Rosso, il Corno d’Africa e il Golfo Persico». Stabilisce quindi che «gli obiettivi permanenti della politica di sicurezza italiana si configurano nella tutela degli interessi nazionali, nell’accezione più vasta di tali termini, ovunque sia necessario», in particolare di quegli interessi che «incidono sul sistema economico e sullo sviluppo del sistema produttivo».
Il «nuovo modello di difesa» passa quindi da un governo all’altro, senza che il parlamento lo discuta mai in quanto tale.
Nel 1993 – mentre l’Italia partecipa all’operazione militare lanciata dagli Usa in Somalia, e al governo Amato subentra quello Ciampi – lo Stato maggiore della difesa dichiara che «occorre essere pronti a proiettarsi a lungo raggio» per difendere ovunque gli «interessi vitali».
Nel 1995, durante il governo Dini, afferma che «la funzione delle forze armate trascende lo stretto ambito militare per assurgere a misura dello status del paese nel contesto internazionale».
Nel 1996, durante il governo Prodi, si ribadisce che «la politica della difesa è strumento della politica estera».
Nel 2005, durante il governo Berlusconi, si precisa che le forze armate devono «salvaguardare gli interessi del paese nelle aree di interesse strategico», le quali comprendono, oltre alle aree Nato e Ue, i Balcani, l’Europa orientale, il Caucaso, l’Africa settentrionale, il Corno d’Africa, il Medio Oriente e il Golfo Persico.
Attraverso questi e successivi passaggi, si demolisce un pilastro fondamentale della Repubblica italiana, per mano dei governi di ogni tinta e con la complicità di un parlamento che, in stragrande maggioranza, acconsente o resta inerte. Mentre l’Italia, sempre sotto comando Usa direttamente o nel quadro Nato, passa di guerra in guerra.
di Manlio Dinucci
da Il Manifesto, 19 gennaio 2016