Venticinque anni fa, il 17 gennaio 2001, iniziò la “Prima guerra del Golfo”. Una coalizione guidata dagli Stati Uniti e sotto l’egida dell’ONU composta da 35 stati, fra cui l’Italia, attaccò l’Iraq per restaurare la sovranità del piccolo emirato del Kuwait che l’Iraq aveva invaso.
Qualche giornale parlò di “Terza Guerra Mondiale”. La frase fu usata anche dalla TV. Pochi lo ricordano ma in quei giorni di 25 anni fa, in Italia ci fu il panico. Migliaia di persone diedero l’assalto ai supermercati facendo incetta di generi di prima necessità. Anche diversi miei parenti furono coinvolti in questi acquisti dettati dalla paura che la frase “Terza Guerra Mondiale” all’epoca suscitava.
Ne parlò la TV. Le grandi catene di distribuzione, fra cui la COOP, fecero comunicati per rassicurare la gente affermando che la guerra non avrebbe avuto alcuna influenza sull’approvvigionamento dei prodotti alimentari. Poi la guerra durò poco. A fine febbraio la guerra finì. La paura cessò e tantissime persone si ritrovarono a dover smaltire, spesso nei rifiuti, tutto l’eccesso di cibi comprati. Sono seguiti una decina di anni dove la guerra sembrò essere lontana. Poi ci fu la guerra in Kosovo, poi l’11 settembre e le guerre che ne sono conseguite fino ad oggi.
Dal 1991 i mass-media non hanno più parlato di “Terza Guerra Mondiale” fino a quando ne ha parlato Papa Francesco all’inizio del suo pontificato. Oggi la situazione è diversa. Nessun assalto ai supermercati si è verificato, come nel 1991, ne è aumentata la coscienza di doversi impegnare in prima persona contro la guerra. La paura non spinge le persone alla pace ma alla guerra e a comportamenti irrazionali. La paura, come sta avvenendo in queste settimane, viene anzi gestita da chi vuole la guerra per stimolare l’appoggio al ricorso alle armi. Anche la paura dei migranti viene utilizzata per sostenere il ricorso alle armi.
Mentre la guerra era ancora in corso, il 3 febbraio 1991, si tenne a Rimini il congresso di scioglimento del PCI. La principale forza della sinistra italiana, che fino a qualche anno prima aveva difeso efficacemente la grande massa dei lavoratori italiani, in quegli anni fu completamente impegnata a discutere di se stessa. Quando il 23 agosto del 1990 il Parlamento italiano fu chiamato a discutere la partecipazione dell’Italia alla coalizione a guida USA contro l’Iraq, il PCI allora guidato da Achille Occhetto ed in via di scioglimento, si astenne sulla mozione presentata dal governo. L’unico che si oppose, in dissenso dal proprio gruppo, fu Pietro Ingrao che votò contro. Nessuna mobilitazione contro la guerra vide protagonista il PCI nei mesi precedenti il suo scioglimento e neppure, negli anni successivi, si impegnarono su tale tema i partiti che nacquero dalle sue ceneri, con atteggiamenti diversificati e contraddittori sulle varie guerre che dopo il 1991 si sono verificate.
E la discussione su se stessi è continuata, per i successivi venticinque anni e continua tuttora, sia nella cosiddetta “sinistra”, sia in quella che oggi è oramai diventata la “diaspora comunista”.
Lo si è visto ieri a Roma dove, dopo venticinque anni, c’è stata una manifestazione per ricordare l’inizio della prima guerra del golfo e del periodo storico che stiamo ancora vivendo. Analoga manifestazione si è tenuta a Milano.
A Roma, come a Milano, c’era solo la “diaspora comunista”, composta da una miriade di piccole organizzazioni, tutte con il proprio piccolo giornale, ognuna sostanzialmente impegnata a discutere di se stessa e a proporre se stessa come soluzione di tutti i problemi dell’umanità. Tutte con la difficoltà di proporre un unico obiettivo sul tema della pace da cui ripartire per fermare la guerra e impedire la distruzione della Terra e l’uccisione di altre migliaia di persone. Tema della pace variamente coniugato, nei vari volantini distribuiti, con obiettivi politici quali “l’abbattimento del governo Renzi/Bergoglio”, che non colgono né la realtà politico sociale né la trasversalità della questione pace, su cui si può e si deve far convergere la stragrande maggioranza del popolo italiano.
Ci sembra evidente che con tale impostazione la ripresa di un vasto movimento per la pace che coinvolga decine di milioni di persone è impossibile. E noi invece abbiamo bisogno proprio di questo, di milioni e milioni di persone che ricordino al governo il dovere di salvare vite e di rispettare la legalità costituzionale.
Occorre focalizzare l’impegno su cose semplici e specifiche, evitando lunghi proclami, che non sono letti da nessuno, e che non colpiscono l’immaginario collettivo.
Le questioni immediate su cui impegnarsi sono quelle della partecipazione italiana all’avventura Libica e l’invio di truppe in Iraq a seguito di una ditta che ha vinto un appalto internazionale per la riparazione della diga di Mosul, unitamente al blocco delle esportazioni di armi verso i regimi attualmente in guerra, come fra l’altro prevede la legge 185.
Su tali temi è necessario coinvolgere tutte le forze politiche e sociali esistenti, tutte le comunità religiose, tutte le associazioni e i sindacati e bisogna avere la capacità di interloquire con chiunque. Dobbiamo promuovere la presa di coscienza degli uomini e delle donne di pace e suscitare il loro spirito civico. E per farlo bisogna mettere da parte i nostri piccoli o grandi velleitarismi o egocentrismi che non salvano vite.
E la guerra può essere fermata se riusciamo, come italiani, a tirare fuori il nostro governo dalla guerra alla quale partecipiamo, con il consenso bipartizan di maggioranza e opposizione, dall’agosto 1990 e poi dal 4 ottobre 2001, quando, dopo gli attentati dell’11 settembre, è iniziata la “terza guerra mondiale a pezzi” di cui parla Papa Francesco.
Possiamo farcela, ne siamo convinti. Occorre l’impegno di tutte e tutti.
Giovanni Sarubbi