Articolo di Padre Kizito
La chiusura della MISNA è una perdita per l’informazione sul Sud del mondo specialmente sui temi legati a giustizia, diritti umani, pace e missione. In tempi recentissimi in Italia hanno chiuso anche Popoli, edita dai gesuiti, e Ad Gentes, un rivista di riflessione teologica che era nata nel 1997. In questi giorni è a rischio chiusura un’altra prestigiosa rivista di informazione sulla vita della Chiesa, Il Regno, nata ai tempi del Concilio Vaticano II e molto seguita negli ambienti missionari. E’ troppo facile prevedere che altre chiusure di testate missionarie seguiranno a breve.
Ho letto diverse opinioni sulle ragioni per le quali MISNA ha chiuso. Aggiungo la mia, solo perché fra le opinioni che mi è capitato di leggere – e me ne potrebbero essere sfuggite molte dalla mia postazione che in queste settimane è la periferia di Nairobi – non ho trovato ciò che sto per scrivere.
E’ stato detto che è mancato coordinamento fra i diversi istituti, è mancato il dialogo con i giornalisti della redazione, è mancata la ricerca seria di soluzioni alternative, c’è stata immobilità imprenditoriale, mancanza di visione, politiche miopi. Addirittura politiche suicide da parte delle congregazioni missionarie. Difficile non essere d’accordo.
Si è anche detto che gli istituti avrebbero potuto intervenire vendendo qualche proprietà immobiliare piuttosto che smantellare la MISNA, e che gli istituti dovrebbero essere disposti a sostenere delle perdite economiche a fronte dell’importanza dell’essere presente nel mondo dell’informazione. Qui sono un po’ meno d’accordo. L’informazione dal Sud del mondo è importante, ma ci deve essere una proporzione fra l’importanza che una testata ha nel mondo dell’informazione e la perdita economica. Se l’informazione prodotta da MISNA non riesce a sostenersi economicamente, perché non ci sono abbastanza persone e istituzioni che siano disposte ad abbonarvisi e le entrate non coprono neppure un terzo o un quarto dei costi (non ho informazioni precise), ci si deve porre qualche domanda. Forse questo tema rimanda al mancato aggiornamento delle politiche editoriali, comunque un’azienda che produce informazione che non copra almeno una parte ragionevole delle proprie spese dimostrando di essere apprezzata dai fruitori, forse non merita di essere tenuta in vita, e i fruitori non meritano l’informazione che ricevono. O la MISNA dovrebbe essere tenuta in vita con le offerte generiche che i benefattori danno pensando che siano destinate ai poveri del Sud del mondo? Sarebbe un’operazione eticamente giustificabile?
Non possiamo neanche contare sulle presunte esagerate ricchezze immobiliari degli istituti missionari, anche se si potrebbe aprire un dibattito su come utilizzarle. In alcuni casi potrebbero essere solo sufficienti a garantire vecchiaia e cure essenziali ai missionari anziani e malati che tornano in patria dopo aver speso una vita al servizio della Chiesa, della pace e della giustizia, dello sviluppo. I Comboniani, dei quali faccio parte, hanno oggi in Italia oltre duecento missionari anziani, malati, bisognosi di cure. E’ una situazione che continuerà per almeno un decennio o due. Credo che per gli altri istituti la situazione non sia molto diversa.
Focalizzarci sul problema economico ci condurrebbe poi nella direzione sbagliata. Quello della vecchiaia fisica dei membri degli istituti missionari può sembrare un’osservazione marginale rispetto al dibattito sulla sopravvivenza della MISNA. Eppure forse questa è la chiave per andare alla radice del problema. L’invecchiamento degli istituti missionari è una delle ragioni della loro progressiva e sempre più grave incapacità di affrontare in modo adeguato le sfide della comunicazione moderna. L’invecchiamento ci ha colti di sorpresa, anche se poteva essere previsto! Solo 25 anni fa i Comboniani avevano una visione globale ed una generazione di missionari giovani che li hanno resi capaci di aprire nel giro di due anni, 1989 e 1990, tre riviste missionarie: nelle Filippine, in Kenya e in Sudafrica. Queste riviste hanno dato un contributo notevole alla crescita dello spirito missionario nei rispettivi paesi, anche se magari oggi sono pure in affanno per carenza di personale, sia religioso che laico, professionalmente preparato.
In quei bei tempi andati si poteva improvvisare un direttore di una testata prendendo un missionario con buona preparazione teologica, un’esperienza sul campo di qualche anno, doti naturali di comunicatore, e poteva funzionare. Ma ciò che allora era possibile fare armati da entusiasmo per la missione e con la collaborazione di volontari, oggi non lo è più.
I mass media sono in continua, rapida evoluzione in tutti gli angoli del mondo – direi che in Kenya questa evoluzione è più rapida che in Italia – e se non ci si rinnova si scompare.
Non è più un mondo per anziani in posti direttivi, e i superiori degli istituti missionari sono sempre più anziani, o comunque in Italia devono tener conto di una base composta da una stragrande maggioranza di anziani. Gli anziani, lo so bene – io sono uno di loro – sono maestri nel rimandare, dilazionare, temporeggiare, rispettare i protocolli e le gerarchie in attesa che il temporale passi, o che arrivi la fine del mio mandato e la gatta da pelare passi a qualcun altro. Così temporeggiare è diventato uno stile di governo. Non si prendono decisioni. Si aspetta. Quando, dopo innumerevoli incontri e confronti e dialoghi, una decisione viene presa, è già superata dai nuovi cambiamenti. I mass media non funzionano cosi. Il mondo moderno non funziona cosi, si viene inesorabilmente superati, ed ogni anno che passa la situazione peggiora.
L’invecchiamento con la conseguente difficoltà nel rinnovarsi e cambiare diventerà ancora più pronunciato, visto che le nuove leve in Italia non ci sono più, e anche negli altri paesi scarseggiano. Si farà domani un rinnovamento che non si riesce a fare oggi?
Allora il problema è ancora più serio che non la chiusura della MISNA: non solo gli istituti missionari non riescono a produrre una comunicazione al passo coi tempi, ma essi stessi non riescono ad essere al passo coi tempi. La comunicazione è centrale alla missione. Che missionario è quello che non sa comunicare? I missionari, e ne conosco alcuni, comunicano anche se sono ciechi, muti, e vivono su una sedia a rotelle. E’ impensabile che oggi i missionari si suicidino tagliandosi fuori dai moderni mass media.
Oppure gli istituti missionari si sono rassegnati a diventare irrilevanti, a scomparire lentamente per lasciar posto ad altre modalità che esprimano in modo più adeguato ai tempi la missionarietà della Chiesa? Recentemente ho sentito un anziano irlandese dire che “noi missionari siamo ormai una nota a piè pagina, e una nota neanche tanto importante, nella storia della Chiesa in Kenya”. Che altri prendano il nostro posto dovrebbe rallegrarci, e certamente la missione nella Chiesa non finirà anche se gli istituti missionari si estinguessero.
E’ un atteggiamento passivo, rinunciatario – quello di subire la storia piuttosto che cercare di capirla e portare il lievito dal Vangelo – che non condivido, ed è molto triste che si sviluppi proprio mentre abbiamo papa Francesco, il papa che viene dalla fine del mondo e ci sprona tutti ad andare verso la fine del mondo, le periferie, luogo privilegiato della missione.
Personalmente continuo a sperare. Credo che i segni di fermenti nuovi siano già visibili. Sta agli istituti missionari discernerli e ripartire. Bisogna riconoscere i fermenti positivi e farli crescere. Non basta chiudere, e chiudersi.
Sono stato più lungo e confuso di quanto pensassi quando ho cominciato a scrivere, forse perché sono vecchio… forse perché i temi correlati alla chiusura della MISNA sono tanti e complessi. La società è cambiata, la chiesa è cambiata e sta cambiando più velocemente del solito con papa Francesco alla guida, ed è ovviamente cambiata l’idea di missione. Le vocazioni per gli istituti missionari diminuiscono drammaticamente in Europa e quelle che arrivano dal Sud del mondo sono appena sufficienti a tenerli in vita. In sintesi quello che volevo dire è che la chiusura della MISNA è solo un episodio di quello che sembra un declino inarrestabile degli istituti missionari, che in quanto istituti anche se ci sono singole eccezzioni, hanno un atteggiamento passivo di fronte alle sfide del mondo di oggi. E’ un sintomo di una malattia ben più grave.