Da Nassiriya a Mosul: nuove “avventure coloniali” di soldati italiani in Iraq sembrano dietro l’angolo, senza che il Parlamento ne abbia discusso e senza alcuna ragione se non vantaggi privati e subalternità internazionale
La scorsa settimana il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha annunciato in una trasmissione televisiva che l’Italia tornerà in Iraq con un contingente militare di 450 uomini, con funzione di protezione e scorta ai lavori che una ditta italiana dovrebbe svolgere per la ristrutturazione della diga di Mosul. Purtroppo il Presidente Renzi non ha ritenuto per ora necessario discutere in Parlamento di questa missione, che sembra non sia stata richiesta dai Governi iracheno o curdo ma piuttosto dagli USA e potrebbe essere stata annunciata da Renzi per fare pressioni sul governo iracheno che non ha ancora formalmente affidato l’appalto all’azienda italiana.
Come ai tempi di Nassiriya, l’Italia intende controllare militarmente un’area interna ad un altro Paese a protezione di interessi economici nazionali: allora erano i pozzi di petrolio che l’ENI voleva sfruttare, oggi il gigantesco appalto di 2 miliardi di euro per la messa in sicurezza della diga di Mosul che l’italiana Trevi starebbe per aggiudicarsi.
A questo riguardo la Rete Italiana Disarmo si domanda perché la ditta in questione non possa ottenere protezione da parte di forze locali riconosciute (peshmerga kurdi o militari dell’esercito iracheno), e richieda invece al nostro Paese, con costi direttamente incidenti sul bilancio dello Stato Italiano, inviare un contingente a Mosul; iniziative che potrebbe costare oltre cento milioni di euro all’anno se si considerano anche le spese logistiche per schierare mezzi e armi.
Ma altri sono i costi più gravi che l’Italia potrebbe andare a dover sostenere, secondo Martina Pignatti, Presidente dell’associazione Un ponte per… che segue la situazione dall’Iraq: “Solo 24 ore dopo l’annuncio di Renzi, Daesh (IS) ha sferrato nella zona di Mosul il più significativo attacco militare degli ultimi 5 mesi, che è stato contenuto con una vasta offensiva dell’esercito iracheno e almeno 19 raid americani. Di questi, uno nella provincia di Falluja ha ucciso con fuoco amico circa 20 soldati iracheni, ferendone 30, secondo il presidente della Commissione Difesa del Parlamento Iracheno. Per Daesh gli italiani, descritti come ‘truppe crociate’, sarebbero un obiettivo statico appetibile, mentre il portavoce di un gruppo paramilitare sciita, che pur lotta contro Daesh, ha minacciato di trattare i nostri solidati da occupanti a cui resistere”. Con queste premesse è irrealistico pensare che i militari italiani non andranno a combattere, come ha invece dichiarato la Ministra della Difesa Pinotti, ed è possibile che si trovino in territorio di guerra senza regole di ingaggio adeguate al livello di tensione, come ai tempi della missione di Nassiriya che finì in tragedia. Sostanzialmente, per dimostrare ad Obama che l’Italia farà la sua parte nella lotta contro il terrorismo, mettiamo gli “stivali sul terreno” in un’area a 15 km dal territorio controllato dal sedicente Califfato e diventiamo obiettivo appetibile per le ritorsioni belliche di Daesh.
Don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi, ricorda la denuncia raccolta in uno dei numerosi viaggi in Iraq: “Una catechista di Mosul, incontrata a casa dell’attuale Patriarca Caldeo allora parroco in quella città, mi faceva notare che i Governi italiani si sono sempre rapportati all’Iraq privilegiando lo strumento militare: dagli anni in cui vendevamo mine antiuomo a Saddam che le ha usate per minare il confine con il Kurdistan iracheno, al tempo dei bombardamenti della Coalizione internazionale e poi dell’occupazione fino all’attuale sostegno in armi e formazione ai peshmerga e alle forze speciali irachene. E non una sola volta questi interventi sono stati programmati per la protezione dei civili vittime della guerra, come ad esempio le donne yazide ancora in mano a Daesh. Quando riusciremo ad articolare risposte politiche e davvero sensate alla crisi irachena?“.
Il ritiro della partecipazione italiana all’occupazione dell’Iraq fu decretato dal nostro Parlamento nel 2006 grazie alla grande mobilitazione del movimento pacifista italiano. Ritornarci oggi, con il paravento della possibile catastrofe umanitaria in caso di crollo della diga, rappresenta un clamoroso voltafaccia della politica italiana. Ci si chiede, inoltre, a cosa serva la missione militare in corso – che ci è costata nel 2015 circa 200 milioni di euro – per contrasto a Daesh e addestramento di militari iracheni e curdi, se questi non sono nemmeno in grado di garantire l’incolumità dei lavoratori chiamati a riparare la diga di Mosul.
Se il Governo italiano volesse autorizzare nel gennaio 2016 l’invio di un contingente a Mosul, si renderebbe immediatamente necessario un dibattito parlamentare sulla questione e un’informazione chiara circa i soggetti da cui è venuta la richiesta del contingente, circa il loro mandato e le regole di ingaggio. E’ questa la richiesta minima che la Rete Italiana per il Disarmo avanza alla maggioranza politica nelle Camere.