Abbiamo un accordo sulla “transizione energetica” (a parole). Servirebbe invece una “rivoluzione energetica”.
Eccolo finalmente, in ritardo di un giorno, e con un rinvio anche la mattina del 12 dicembre (dalle 9.00 annunciate si è passati alle quasi 19.00), da Le Bourget di Parigi, il famoso, storico, “sospirato” (dalla élite mediatica e politica), accordo sul clima. Quello che – a modesto parere del sottoscritto, ispirato dalle critiche di Hermann Sheee al “minimalismo organizzato” delle conferenze, e alle pretese di mercificazione dell’aria (con il sistema della compravendita dei crediti di inquinamento) – anche se rispettato, ci rovinerà comunque.
Quello che consente di suonare le trombe della vittoria, a Hollande, a Ban Ki-moon, praticamente a tutti i capi di Stato, ma anche alle associazioni ambientaliste come WWF e Greenpeace, è l’obiettivo ufficialmente raggiunto dopo tredici giorni di negoziati: “L’aumento della temperatura sarà mantenuto BEN SOTTO I DUE gradi”, è il titolone che sarà sparato sui giornali.
Ciò che è ufficiale, che sta davanti agli occhi di tutti, e quindi mi interessa come “problema da indagare”, da “antigiornalista” che usa il cervello e non le gambe per inseguire i pettegolezzi di corridoio, è che si tratta non di LOTTA al riscaldamento climatico, ma di MITIGAZIONE E ADATTAMENTO. A riflettere bene su questa realtà palese si dovrebbe, a mio parere, capire meglio il senso delle cose.
All’inizio c’è la questione dei TAGLI delle emissioni di CO2 e delle quote in cui devono essere distribuiti; ma si parla anche di un futuribile percorso verso le EMISSIONI ZERO, per il quale viene fissato un orizzonte “nella seconda metà del secolo”, che però non stabilisce passaggi né scadenze precise.
Ma a ben vedere gli stessi tagli non hanno una scadenza di partenza. Quindi si resterà fermi per anni, con obiettivi proclamati, ma non attuati, prima di iniziare davvero (forse) la cura alla “febbre del Pianeta”. Il buon senso comune non osserverebbe che il paziente, vale a dire l’ecosistema globale che ci permette di vivere, in questo modo potrebbe tirare le cuoia?
L’ipocrisia di fondo del circo mediatico-diplomatico della COP21, con contorno, ripeto, delle grandi ONG accreditate a “spingere”, al sottoscritto appare evidente. Spiegatemi come si può conciliare la stabilizzazione del clima con il via libera alle trivelle nell’Artico e ovunque e con il mantenimento dei 500 miliardi di dollari annui per incentivare i combustibili fossili (di cui a Parigi non si fa quasi menzione)!
Questa la situazione in cui l’ambientalismo mediatico delle grandi ONG si inserisce con il + 1 (ad es. più soldi al Fondo per i Paesi in via di sviluppo) sostanzialmente all’interno degli stessi parametri: OXFAM, Greenpeace, WWF, etc., fatemi il piacere!
Non si coglie il principio di fondo: è il momento, questo, non della TRANSIZIONE, ma della RIVOLUZIONE energetica, che ciascun Paese può e deve (grazie alla pressione popolare) iniziare a percorrere da subito, senza stare ad aspettare gli altri, l’accordo di tutti, perché il 100% rinnovabili subito si basa (riprendo Hermann Sheer) su tre azioni semplicissime: 1) chiudere il rubinetto dei finanziamenti pubblici ai combustibili fossili (in Italia 15 miliardi di euro all’anno); 2) stabilire la priorità delle FER nel dispacciamento in rete; 3) garantire, con le municipalizzate e le aziende locali, l’infrastruttura adeguata. Non servirebbe altro e misure come queste produrrebbero più trasformazioni di sistema di tutte le chiacchiere sull'”abbattimento del capitalismo” ed il “superamento della logica del profitto”, magari con contorno di convinzioni più o meno dichiarate sull’inevitabile necessità dell’insurrezione armata.
Molti “anticapitalisti” che non fanno l’analisi concreta della situazione concreta, che non si sforzano di esaminare, alla Luciano Gallino, ad esempio, come funzionano effettivamente le cose, sono i primi a credere alle favole che raccontano i veri “capitalisti”. Veramente credono che se l’ENI potesse fare più profitti col “sole” abbandonerebbe subito l’estrazione di gas e perolio? Che esista un qualcosa che, sui grandi beni e servizi, possa chiamarsi “concorrenza economica sul libero mercato”?
È la favola a cui crede, per esempio, lo scienziato James Hansen, intervistato sul sito di Repubblica, che pure giudica l’accordo “una frode, un falso”. Ecco le sue motivazioni: “È una sciocchezza dire: abbiamo l’obiettivo dei 2 gradi e cercheremo di fare un po’ meglio ogni 5 anni. Sono solo parole senza senso. Non c’è nessuna azione, solo promesse. Fino a che i carburanti fossili saranno i più economici, continueranno ad essere bruciati”. Quello che dimentichi anche tu, caro Hansen, è che i fossili sono economici in quanto spropositatamente sovvenzionati. E dimentichi anche di chiederti perché ciò si verifica. È un fatto casuale?
Gli anticapitalisti ideologici, come Hansen, insomma non si rendono conto che esiste un rapporto organico tra appoggio dello Stato, orientato dalla logica della potenza, e certe scelte economiche e tecniche, che devono essere coerenti con la realtà di una grande organizzazione economica che, anche grazie all’accesso alle casse dello Stato, concentra risorse e tecnologia.
L’ENI investirà come core business nel sole solo se si troverà il modo, conservando il rapporto con l’élite burocratica di Stato, di recintarlo e di sfruttarlo con tecnologie molto complesse e non liberamente disponibili: il profitto (la differenza tra costi e ricavi, che tra l’altro si misura in valori monetari ed è quindi legato alla complessa tecnologia sociale e politica della moneta) da solo non c’entra un beneamato tubo!
Ma rientriamo nel merito di ciò di cui tutti parlano sui media.
L’accordo della COP21 in questione è il primo firmato subito da 195 Paesi, e la presidenza francese, come ci tocca sentire, se ne fa un gran vanto.
Lo scoglio più duro che si è dovuto superare nella fase finale è stato quello della “differenziazione di responsabilità” tra Paesi ricchi e Paesi in via di sviluppo, con l’India in particolare a puntare platealmente i piedi (ma anche la Cina dietro le quinte).
A tirare la coperta dal punto di vista dell'”ambizione” degli obiettivi (il famoso tetto di 1,5°C di aumento al posto di 2°C) abbiamo trovato invece Stati come Nigeria, Grenada o l’arcipelago polinesiano di Palau – mobilitati attivamente per difendere “passaggi chiave” dell’accordo sulla tutela delle aree vulnerabili (in particolare quelle che i mari stanno per sommergere).
Sui temi più spinosi si sonto trovate formule di compromesso, ad es. sui loss and damages, il supporto ai paesi “vulnerabili” per affrontare i cambiamenti “permanenti e irreversibili”, che vengono dati per scontati, visto che appunto ci si deve adattare al riscaldamento climatico, che, repetita iuvant, può solo essere contenuto, non evitato.
I climatologi fissano i 2° C come “linea rossa” da non superare per evitare un precipizio catastrofico (ed è dubbio che gli scienziati stessi sappiano bene cosa intendono con questa espressione). La realtà, stando ai loro stesi calcoli, è che la traiettoria reali verso cui portano gli impegni presi dagli Stati portati alla Conferenza è di 3 – 3,5° C: un disastro di grandi, forse irrimediabili, proporzioni!
Il dispaccio dell’ANSA sull’accordo di Parigi e la scheda sui suoi punti principali
Il testo originale dell’accordo (in inglese)