Avevamo seguito con trepidazione la battaglia elettorale in Argentina delle scorse settimane e guardato con preoccupazione alla sconfitta del candidato presidente del peronismo di sinistra, che avrebbe dovuto rappresentare la continuità con l’esperienza di democrazia solidale incarnata da Christina Kirchner e alla vittoria, invece, del candidato della destra, Mauricio Macri. Questi promette già il ritorno del neoliberismo, la riduzione dei programmi di investimento sociale e una nuova apertura al capitale finanziario, alle privatizzazioni e all’appeasement verso gli eredi della dittatura.
Le contemporanee traversie politiche e istituzionali in Brasile, con una situazione sociale sempre più tesa e la recente apertura della procedura di impeachment contro la presidente del Partito dei Lavoratori, Dilma Rousseff, che aveva raccolto l’eredità politica di Lula e della stagione notevole della trasformazione progressista del Brasile, stavano lì infatti a indicare un deterioramento complessivo del quadro politico in America Latina: non tanto il timore di riuscire a portare drammaticamente indietro le “lancette della storia”, quanto, piuttosto, il segno del ritorno del neo-liberalismo e della destra politica ed economica al potere.
Alla vigilia delle elezioni parlamentari del Venezuela, che si sono tenute la scorsa domenica, 6 dicembre, sembrava piuttosto difficile prevedere l’esito: da una parte, i soliti sondaggi della stampa borghese e dei grandi potentati dell’informazione privata, che annunciavano una maggioranza sicura, sebbene non dilagante, alle opposizioni anti-chaviste e anti-bolivariane; dall’altra, i riscontri di amici e compagni, di osservatori e testimoni “sul campo”, che non solo confermavano la tenuta del PSUV e del fronte bolivariano (il GPP, il Gran Polo Patriotico), ma annunciavano una mobilitazione ad ampi ranghi. Invece è andata peggio delle peggiori previsioni: con una partecipazione superiore al 74%, la MUD (Mesa de la Unidad Democratica, la coalizione delle opposizioni), ha vinto e con un margine molto ampio.
A differenza del Gran Polo Patriotico, imperniato intorno a una precisa leadership, quella chavista rappresentata dal PSUV (il Partito Socialista Unificato del Venezuela) e un chiaro programma, scolpito a chiare lettere nella realizzazione del “Socialismo del XXI secolo”, la MUD non è una formazione dal contorno ben distinto, non ha un suo centro politico né una leadership riconosciuta. È piuttosto un composito ed eterogeneo cartello elettorale, che comprende partiti che vanno dalla destra nazionalista alla socialdemocrazia tradizionale, formazioni della destra violenta e golpista e residuati della IV Repubblica. Si coagula intorno a diverse personalità, alcune “istituzionali” come Henrique Capriles, altre “radicali” e già note per iniziative eversive (Leopoldo Lopez e le tristemente famose “guarimbas”) e un programma minimo: ostilità al socialismo e al chavismo e ritorno al neoliberismo e ai capitali privati.
La vittoria non di meno è netta; se si eccettua il referendum costituzionale del 2007, segna anche, dal 1998 ad oggi, la prima e unica sconfitta del movimento bolivariano e delle forze chaviste. La MUD sfiora il 60%, conquista 99 seggi su 167 del Parlamento venezuelano; supera ampiamente la maggioranza semplice (84 seggi) e attende l’assegnazione dei restanti 22 seggi non ancora assegnati. Significa due cose: la prima, l’innegabile e inedita sconfitta del PSUV (46 seggi tra quelli già assegnati); la seconda, il pericoloso avvicinarsi della destra a quei due terzi dei seggi che le assicurerebbero la possibilità di superare il veto presidenziale alle proprie leggi (e quindi minacciare la stessa prosecuzione del socialismo bolivariano) e di convocare un referendum revocatorio, per la “salida”, la cacciata dell’odiato Nicolas Maduro, il presidente venezuelano, non con la violenza, ma in forza di legge.
Il socialismo venezuelano ha davanti una sfida impegnativa: è vero, come ha ricordato Maduro, che questo passaggio rappresenta in ogni caso un successo della democrazia – la stessa democrazia partecipativa, protagonistica e popolare che il socialismo bolivariano ha inaugurato nel paese; è meno vero, come altri commentatori hanno azzardato, che è frutto esclusivamente della “guerra economica” delle oligarchie e dell’imperialismo e della “propaganda ostile” dei grandi media privati. Stiamo parlando qui di un significativo spostamento del consenso, non solo delle oligarchie e delle burocrazie più o meno corrotte e parassitarie, ma anche di vasti segmenti popolari, proletari e soprattutto sottoproletari, che pagano il prezzo dell’accaparramento e del sabotaggio, della “scarsità provocata” di generi di prima necessità e di una forte tensione sociale, che aumenta precarietà e sfiducia.
In Venezuela, i grandi media sono ancora privati, la diversificazione produttiva è ancora debole (il paese dipende fortemente dalle esportazioni petrolifere) e le principali catene della distribuzione sono in buona parte in mani private. La stessa destra, responsabile del sabotaggio e della guerra economica, è stata tuttavia premiata dal consenso elettorale, in una dimensione che non è interamente o esclusivamente ascrivibile ai sobillatori esterni e al controllo dell’informazione. Il fronte bolivariano non è riuscito nell’opera di convincimento e di mobilitazione, ma è con il socialismo bolivariano che il Venezuela è tornato “patria” e i venezuelani hanno riguadagnato la propria “dignità”. Non si possono portare indietro le lancette della storia. La strada da seguire, oggi più che mai, è rappresentata dallo sviluppo e dall’approfondimento del socialismo del XXI secolo.