Quando c’è la guerra è difficile immaginare come possa esistere un quotidiano, quale sia la vita di chi si sveglia sotto le bombe e magari all’improvviso deve far fagotto e abbandonare tutto. Spesso senza voltarsi indietro. In Siria c’è la guerra civile dal 2011. Temo che in tanti ce ne dimentichiamo ma sono quattro anni che il popolo siriano vive in costante pericolo, in condizioni che io personalmente non riesco nemmeno a figurarmi.
Eppure c’è chi va avanti, ogni mattina si alza e va a lavorare cercando di fare del proprio meglio, nonostante tutto. E ottenendo pure eccellenti risultati. E non nascondiamocelo, qua si parla davvero di eroi. La notizia è questa: la Siria sta guidando la rinascita della produzione globale di olio d’oliva grazie al duro lavoro dei coltivatori che contro ogni aspettativa sono impegnati a trovare il modo di imbottigliare un buon raccolto. Così buono che la Siria, sì la Siria devastata dalla guerra civile, dovrebbe diventare il quarto maggior produttore mondiale di olio d’oliva dopo la Spagna, l’Italia e la Grecia.
Ce lo dice International Olive Council (Ioc) che ha diffuso i dati del raccolto 2015: sono 215.000 le tonnellate di olio che dovrebbero essere prodotte in Siria quest’anno. Davvero niente male, anzi come dice l’Ioc «è un dato davvero impressionante se si pensa che l’aumento rispetto al 2014 è del 105%». E ora scatta il ma: «Per trasformare l’abbondante raccolto in olio le aziende locali devono superare i difficili problemi posti dalla guerra civile» – a molti potrebbe sembrare una banalità, ma vista la reazione di tanti all’arrivo dei profughi che fuggono dalla guerra forse è un bene ricordarlo –sottolinea la portavoce del Council, Juliette Cayol. E lo conferma anche Mohammad Hassan Zeno, olivicoltore della provincia assediata di Aleppo, in un’intervista concessa alla IbTimes Uk: «la sicurezza costituisce un grave problema: a causa dei combattimenti e dei bombardamenti è spesso molto pericoloso per i contadini uscire nel frutteto o raggiungere il frantoio».
Almeno 20 persone sono state uccise dalle bombe nel 2012, quando gli aerei governativi se la sono presa con uno stabilimento per la produzione di olio d’oliva nel governatorato nordoccidentale di Idilb, che insieme alla provincia di Aleppo e alla regione costiera di Latakiae Tartus costituisce il cuore della produzione siriana di olive.
Non va certo meglio per il trasporto: «la benzina è piuttosto costosa e molte volte i camion vengono dirottati. Ma a parte questo va tutto bene» rassicura Zeno. Tanta stima. Perché in realtà per raggiungere il porto di Latakia, da dove poi parte verso Arabia Saudita, il Golfo, gli Stati uniti e la Spagna, il suo olio deve uscire dalla città curda di Afrin, dove Mohammad ha l’azienda, e attraversare aree sottoposte al controllo di fazioni rivali e zeppe di checkpoint: «In ogni area che attraversiamo dobbiamo pagare l’autorità locale, compreso l’esercito siriano».
Lo slalom tra le difficoltà non finisce qui. Potete immaginare da soli come possa essere complicato trovare manodopera: dall’inizio della guerra più di 4 milioni di siriani hanno dovuto lasciare il paese, circa 200.000 sono stati uccisi, tanto che donne e bambini hanno sostituito gli uomini che sono stati chiamati al fronte o sono stati uccisi o sono dovuti scappare.
In ultimo, la guerra brucia gli oliveti, anche quelli centenari che vengono abbattuti per farne legna da ardere: si fatica a superare i freddi mesi invernali. Ma Mohammad non si arrende: «Noi continuiamo a fare il nostro lavoro, il nostro prodotto è buono e riusciamo a difenderci perché i nostri costi sono più bassi rispetto agli altri paesi produttori». Ribadisco, tanta stima.
Michela Marchi da Slowfood.it