In occasione della recente assegnazione del Nobel per la Pace 2015 al Quartetto per il dialogo nazionale tunisino Pressenza ha intervistato una grande conoscitrice della Tunisia, la prof.ssa Chiara Sebastiani
Il Nobel per la Pace 2015 al Quartetto per il dialogo nazionale tunisino. Che valore ha quest’assegnazione per la Tunisia?
Penso che il Nobel per la pace sia un giustissimo riconoscimento per tutto il popolo tunisino che ha mostrato di essere un popolo attaccato alla libertà, capace di grandi sacrifici e geniale in politica.
Dalla Rivoluzione ad oggi i tunisini hanno saputo inventare forme inedite di politica per gestire la transizione prima (la “Alta Istanza per il Raggiungimento degli Obiettivi della Rivoluzione”) e le crisi dopo (il “Dialogo Nazionale”). Sono loro i veri esperti di politica deliberativa. Hanno anche saputo fermarsi e fare un passo indietro nei momenti di conflitto acutissimo quando pareva essere sull’orlo della guerra civile. E’ un popolo straordinario.
Il “Quartetto” rappresenta solo una parte di quel popolo. E tra i componenti del Quartetto c’è anche chi ha soffiato sul fuoco e spinto per far cadere le istituzioni democratiche (Assemblea costituente e governo detto della “Troika”) uscite da elezioni regolari e certificate come tali da tutta la comunità internazionale. Ha contribuito cioè alla crisi che ha portato al “Dialogo nazionale” come soluzione di compromesso. Ciò vale in particolare per il sindacato UGTT i cui scioperi irresponsabili (e da parte di categorie privilegiate come gli insegnanti) hanno contribuito a destabilizzare la situazione. Vale anche per molti intellettuali che, scontenti di un governo dove il partito islamico Ennahdha era in maggioranza, hanno fatto di tutto per destabilizzarlo, a scapito dell’interesse del paese che aveva invece bisogno di un governo stabile.
Malgrado ciò, oggi con un governo di unità nazionale la Tunisia sta dando lezioni di pace e democrazia al mondo intero. Penso che anche l’Occidente, in questo momento, abbia molto da imparare dal paese.
Questo Nobel rischia di stridere un po’ all’interno di un paese in cui i conflitti politici, le contromisure anti terroristiche e le tensioni quotidiane pendono più verso l’aggressività, l’affronto, il veto, l’azione violenta?
Il Nobel è stato accolto senza trionfalismi, addirittura un po’ sottotono. Ciò è segno evidente della consapevolezza diffusa, tra i leader, che non si debba rischiare di incrinare i delicati equilibri basati su compromessi che a molti sono costati e costano tuttora. Lo stesso “Dialogo Nazionale” è stato un compromesso che ha in parte scavalcato un’Assemblea Costituente legittima affidando un ruolo di protagonista a quattro grandi corporazioni le quali – con tutti i loro meriti e demeriti – rappresentano comunque solo una parte del popolo.
E l’attuale governo di unità nazionale per molti, sia esponenti dell’islam politico che della sinistra liberale e radicale, equivale ad un surrettizio “ritorno al vecchio regime” mentre per altri, soprattutto quanti hanno votato il nuovo partito di maggioranza Nida Tunès in funzione anti islamista, è difficile accettare un governo di unità nazionale ancorché con un solo rappresentante di Ennahdha (che è pur sempre il secondo partito nell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo).
Benché con meno mediatizzazione, il mondo intero ha zoommato sulla Tunisia e stavolta non per raccontare di bombe e attentati, ma per riconoscere il suo coraggio nell’aprire la via della democratizzazione attraverso il dialogo, l’ascolto, la tolleranza e la mediazione pacifica. Può essere un segnale forte lanciato al pianeta per aprire nuovi paradigmi o è da intendere esclusivamente come ricompensa diplomatica propria del paese tunisino?
Forse il primo segnale positivo è quello di dare un’immagine più positiva e più giusta di un paese del quale i media si occupano molto quando ci sono conflitti e attentati e che dimenticano in seguito. L’identificazione della Tunisia come paese “a rischio terrorismo” – con l’impatto durissimo sul turismo – è sbagliata e ingenerosa se pensiamo a tutti i paesi ai quali viene rilasciato “bollino verde” dove in realtà i rischi sono ben maggiori (l’Egitto per esempio)
Per il resto il Nobel per la pace rappresenta un riconoscimento morale il cui impatto è abbastanza limitato.
Non vi è dubbio che nel “laboratorio Tunisia” si stiano davvero aprendo nuovi paradigmi e che il paese rappresenti un modello positivo per tutta la regione MENA, dove la partita aperta con le “primavere arabe” è tuttora in corso (e non malamente terminata come si tende a rappresentarla). Non è chiaro però quale impatto il Nobel possa avere su quanti hanno interesse precisamente a far fallire questo modello positivo prima che “contamini” altri paesi.
Né purtroppo il Nobel pare sia servito – per ora – a lanciare al pianeta – e all’Europa in primis – il messaggio che se davvero si considera quel processo esemplare e portatore di speranza allora esso va sostenuto concretamente e non solo simbolicamente con due mezzi: investimenti economici e apertura delle frontiere (con una radicale modifica dell’attuale politica dei visti che chiude le porte non ai peggiori ma ai migliori elementi del paese).
Per terminare, un riconoscimento al dialogo sociale, agli attori vivi della società e a chi si ritrova nella nonviolenza e nella pace. Che significa tutto ciò oggi dinanzi a un mondo politico occidentale e a dei poteri forti che si stanno armando sino ai denti e preparano le guerre di oggi e quelle di domani?
Oggi con un governo di unità nazionale la Tunisia sta dando lezioni di pace e democrazia al mondo intero. Penso che anche l’Occidente, in questo momento, abbia molto da imparare dal paese.
Ma ricordiamo che ciò che ha preservato la Tunisia dal fare la fine della Libia, dell’Egitto e della Siria, oltre alla genialità politica del suo popolo e alla saggezza e prudenza della sua leadership, è il fatto che si tratti un paese piccolo, culturalmente omogeneo, senza petrolio o altre risorse appetibili. Vale a dire che l’Occidente non ha avuto interesse a fare ciò che ha fatto in Libia (intervento armato), in Egitto (tifo per il ritorno della dittatura contro un governo elettivo legittimo), in Siria (prima illudere l’opposizione e poi abbandonarla a se stessa),
Non vorrei che il Nobel serva a dare buona coscienza all’Occidente, confermando la storia che esso ama raccontarsi, cioè che i problemi della regione nascono dagli “altri” – cioè da vizi intrinseci alle popolazioni non-occidentali – e riguardano gli altri.
Chiara Sebastiani insegna Teoria della sfera pubblica e Politiche locali e urbane presso l’Università di Bologna, è autrice del libro “Una città una rivoluzione. Tunisi e la riconquista dello spazio pubblico“ (ed. Pellegrini Editore, 2014)