L’inizio di agosto lascia un’impressione amara, per chi si occupa dei Balcani con lo sguardo rivolto al superamento delle conseguenze dolorose dei conflitti degli anni Novanta e un impegno profuso nella direzione di ciò che riguardi, prima ancora che la riconciliazione, le speranze di una rinnovata convivenza. E proprio in questi primissimi giorni del mese estivo per eccellenza, quando l’attenzione dell’opinione pubblica sembra più debole, per l’inizio della pausa estiva, e per il rallentamento dell’attività istituzionale, alcune notizie irrompono dall’Europa del Sud Est, e tutte sembrano avere un tono amaro, doloroso, tragico, nel portato che vi si condensa da una lunga stagione di violenza e di guerra.
La più recente, tra queste notizie, era anche da più parti e da lungo tempo attesa: l’approvazione, da parte del Parlamento kosovaro, del pacchetto di modifiche costituzionali che rende possibile l’introduzione, nella regione, di un Tribunale Speciale per indagare i crimini di guerra e contro l’umanità, eventualmente legati anche al traffico di organi umani, da parte degli esponenti dell’UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo), l’organizzazione terroristica che, nella seconda metà degli anni Novanta, ha combattuto le forze militari e para-militari serbe nella regione, rendendosi, secondo diversi osservatori internazionali e indagini indipendenti, responsabile di gravi violazioni e crimini.
Il dibattito parlamentare è stato lungo e controverso: l’istituzione di un tale Tribunale era stata più volte sospesa e rimandata, al punto da indurre persino diverse cancellerie occidentali a fare pressioni sulle autorità dell’auto-governo kosovaro, per aumentare gli sforzi e accelerare i tempi per l’approvazione del pacchetto di riforma costituzionale.
Come hanno infatti ricordato, in sede di dibattito parlamentare, le massime autorità dell’auto-governo kosovaro, si è trattato di “costituzionalizzare” una specie di “imposizione internazionale”: il premier Isa Mustafa ha ricordato che l’approvazione costituisce «una esplicita richiesta da parte degli alleati strategici del Kosovo, in particolare gli Stati Uniti e l’Unione Europea»; il vice-premier e ministro degli esteri Hashim Thaci ha sottolineato che «questo processo ci farà voltare pagina assieme, senza differenze politiche e in collaborazione con Stati Uniti, Unione Europea e NATO».
È appena il caso di richiamare la mitologia nazionale costruita intorno all’UCK come artefice della liberazione e della indipendenza della regione (conseguita il 17 febbraio 2008 e non riconosciuta dalla comunità internazionale), a seguito della guerra di aggressione della NATO contro la Jugoslavia nel corso del 1999, e il ruolo di primo piano nella vita pubblica kosovara di ex esponenti ed ex comandanti dello stesso UCK, a partire dallo stesso Thaci, ex comandante della guerriglia separatista (nome di battaglia: il “Serpente”), per intuire in quali difficoltà ambientali e di contesto dovrà muoversi l’istituzione, prima, e il lavoro, poi, di un Tribunale così importante e così delicato.
Non a caso, il voto parlamentare ha sì registrato, lo scorso 3 agosto, 82 voti favorevoli, sui 120 seggi del Parlamento a Prishtina, ma anche il boicottaggio da parte delle opposizioni ultra-nazionaliste (l’AAK di Ramush Haradinaj, anche lui ex capo dell’UCK, e Vetevendosje-Autodeterminazione di Albin Kurti), che non hanno partecipato alle votazioni.
Non per il fatto che si tratti di mera coincidenza assume minore rilievo la concomitanza con un’altra data importante, un altro “luogo della memoria” assai significativo per i Balcani Occidentali, quella del 5 agosto, giorno della memoria per il popolo serbo. Nella sua riunione dello scorso giugno, il Comitato del governo serbo per la memoria delle guerre di liberazione nazionale, aveva stabilito che le “ricorrenze” più importanti fossero celebrate insieme dalla Repubblica di Serbia e della Repubblica Serba di Bosnia, stilando un “calendario memoriale” con luoghi e date della memoria.
Nell’ordine, a Višegrad, in Republika Srpska, il 15 Febbraio, l’inizio della Prima Rivoluzione Serba (1804); a Donja Gradina, in Republika Srpska, il 22 Aprile, il Giorno del Ricordo delle vittime di genocidio nel c.d. “Stato Indipendente Croato” (lo stato-fantoccio dei collaborazionisti ustaša di Ante Pavelić) nella Seconda Guerra Mondiale, nel Parco Nazionale di Mrakovica, presso Prijedor in Republika Srpska; il 3 Luglio, la battaglia del Monte Kozara, nella Seconda Guerra Mondiale (1942) e il 21 Novembre, la Giornata della Pace, anniversario degli Accordi di Dayton, Ohio (1995).
Tra le altre, vi è appunto il 5 agosto, ricorrenza della pulizia etnica contro i serbi attuata nel contesto della operazione “Oluja” (“Tempesta”) da parte dell’esercito croato e delle forze NATO contro la Krajna serba, vale a dire le regioni serbe della Croazia, alla fine della guerra, nel 1995, esattamente venti anni fa. In quella circostanza, l’esercito croato, insieme con le forze croato-bosniache del Consiglio di Difesa Croato, conquistò il territorio della Repubblica Serba di Krajina sul territorio di Banija, prese Lika, Kordun e la Dalmazia settentrionale, e impose la bandiera croata su Knin.
Il tutto al prezzo di una sanguinosa pulizia etnica a danno dei serbi: sebbene non vi siano stime univoche sulle vittime della guerra, si stima che, nel corso dell’intera operazione, oltre 200.000 serbi siano stati espulsi, 2.000 siano stati feriti, quasi 2.000 persone siano scomparse e oltre 40.000 strutture (case, negozi, servizi) siano state saccheggiate, date alle fiamme e quindi distrutte. In quella che per la Croazia, e gran parte del mondo occidentale, è stata il “compimento” della liberazione e della indipendenza nazionale del Paese, si è consumata, viceversa, una delle più sanguinose eppure dimenticate tragedie della lunga stagione delle guerre che hanno imperversato nei Balcani e distrutto la Jugoslavia.
Un ennesimo caso di memorie divise, sulle quali le élite nazionali, spesso “legittimatesi” proprio in ragione di tali violenze, alimentano la divisione e la contrapposizione, ma anche un caso di oblio colpevole, specie da questa parte del continente, in cui le ragioni degli interessi e delle convenienze troppo spesso prevalgono su quelle della pace e della giustizia.