È stato finalmente celebrato lo scorso 20 agosto, nel più tombale silenzio da parte dei grandi organi di informazione, il processo a carico di Biram dah Abeid e Brahim Bilal Ramdhane, esponenti di primo piano del movimento anti-schiavista IRA Mauritania, detenuti in carcere, sinora senza processo degno di questo nome, dallo scorso 25 novembre.
Il 25 novembre, infatti, è stata definitivamente confermata la prigionia per gli attivisti (all’inizio cinque), che da subito è apparsa come una tipica reclusione per motivi politici, dal momento che i fatti contestati riguardano la “mobilitazione di Rosso” del precedente 11 novembre. L’11 novembre il movimento anti-schiavista, IRA, aveva organizzato una pacifica “carovana di protesta”, nella città di Rosso, a Sud del Paese, al confine con il Senegal, portando in uno dei luoghi più “sensibili” dell’intero Paese, dove più forte è la presenza della minoranza nera haratin, la stessa sulla quale si ripercuotono in maniera più feroce la discriminazione etnica e lo sfruttamento schiavistico, la propria voce contro la schiavitù. Non solo, a ben vedere, contro la schiavitù, sebbene questa rappresenti la forma e la pratica più anti-storica e degradante contro la quale il movimento si batte; ma, più in generale, contro il regime liberticida in vigore in Mauritania, contro la diffusione di una pratica schiavistica ancora ampiamente praticata nel Paese, per la fine delle discriminazioni su base etnica che ancora si registrano nel Paese e per il pieno ed autentico riconoscimento di tutti i diritti umani e civili, di tutti i diritti umani per tutti e per tutte, nel Paese.
Ci sono dunque voluti, allo scorso mese di gennaio, quasi tre mesi, affinché le autorità giudiziarie mauritane “convalidassero il fermo”, vale a dire confermassero la prigionia per gli attivisti del movimento dopo i fatti di Rosso, con una doppia accusa, peraltro, di resistenza a pubblico ufficiale (resistenza alla forza pubblica ) e di organizzazione di manifestazione non autorizzata (d’altro canto, la stessa IRA, in quanto movimento anti-schiavista ed anti-regime, è un movimento non riconosciuto e non autorizzato dalle autorità al potere). A rendere più grave il contorno politico di questa condanna e di questa prigionia, vi è il fatto che Biram, da oltre un anno a questa parte, non è solo un attivista sociale, uno degli esponenti più in vista tra i movimenti per i diritti presenti nel Paese (ve ne sono: organizzazioni anti-schiaviste, come la storica SOS Esclaves o la Kawtal, per i diritti delle donne, come l’Associazione delle Donne Capo Famiglia e così via), ma anche un leader politico, un esponente politico di primo piano nella scena pubblica del Paese.
Alle ultime elezioni presidenziali, celebrate il 21 giugno dell’anno passato, Biram aveva affrontato il presidente uscente e rieletto, Mohamed Ould Abdel Aziz, giungendo a grande distanza dal vincitore, ma riuscendo a fare convergere su di lui più o meno il 9% dei consensi dell’intero Paese. Con questo passaggio, peraltro importante, la causa di Biram (e dell’IRA, da lui fondata nel 2008) continua ad identificarsi con quella della liberazione degli schiavi e degli “haratin” (parola, che tra l’altro, deriva proprio dalla parola “libertà”, dal momento che, noti come “mori neri”, e costretti per decenni al rango di schiavi dei “mori bianchi”, discendenti dai conquistatori arabi, divennero, formalmente, “schiavi liberati” all’indomani della prima legge “abolizionista”, datata al lontano 1905), ma non si riduce o si esaurisce in quella, venendo a dotarsi cioè di una prospettiva di liberazione più ampia, che parla a tutto il Paese, alle molteplici pratiche di schiavitù consolidate e alle diverse forme di discriminazione, marginalizzazione, quando non vera e propria segregazione razziale, che vengono, a più riprese, denunciate dagli attivisti e dalle organizzazioni internazionali.
«Nel nostro Paese – riportiamo le parole dello stesso Biram in occasione del suo incontro alla Casa Bianca del 2014 – vige un sistema clientelare che favorisce gli arabo-berberi in tutti i settori dell’economia nazionale: dall’estrazione mineraria, alla pesca, ai servizi. Più del 90% dei lavoratori portuali e dei lavoratori domestici sono “haratin”, l’80% della popolazione analfabeta è “haratin”. Eppure nel 2013, solo 5 su 95 seggi presso l’Assemblea Nazionale erano occupati da questo gruppo. I “mori bianchi” fanno profitto, i “mori neri” sono manodopera». Si calcola che, su 3.5 milioni di abitanti, siano almeno 700 mila le persone costrette a vivere, del tutto o in parte, alle dipendenze di un “padrone”. Sono anche detti “schiavi neri” e hanno un’origine affine alle etnie indigene (wolof, soninke e bambara), che nel loro insieme costituiscono la metà della popolazione. È bene ricordare che esistono, in Mauritania, almeno tre forme di schiavitù ben identificabili: vi è una schiavitù domestica, legata al lavoro non retribuito presso le case e le dipendenze dei “padroni”; una schiavitù minorile, esercitata attraverso lo sfruttamento di minori figli di schiavi, costretti a separarsi dalla famiglia ed “impiegati” come schiavi per discendenza; e una schiavitù rurale, legata all’esercizio del lavoro agricolo e pastorale in regime di evidente sottomissione.
È bene anche ricordare che, intorno al consolidamento della pratica schiavistica, si reggono interessi ancestrali e centri di potere inter-clanico, vero e proprio supporto al potere di Mohamed Ould Abdel Aziz, giunto per la prima volta al potere nel Paese all’indomani di un colpo di stato militare nel 2008. Appena l’anno prima, tra l’altro, era stata approvata dal parlamento mauritano una legge che dichiarava la schiavitù per la prima volta un reato “penale”: se si vuole, la gravità di una situazione nella quale l’intero XX secolo è trascorso considerando la schiavitù poco più che una irregolarità “amministrativa”, è confermata dal fatto che solo recentemente, lo scorso 12 agosto, il parlamento ha ufficialmente previsto di raddoppiare la pena per i colpevoli di reato di schiavitù – fino a 20 anni di carcere – garantendo alle vittime, sulla carta, processo regolare ed assistenza legale gratuita. Ma come si fa a cogliere in flagranza un “padrone” nell’esercizio del reato di schiavitù? Quale voce hanno le vittime, di fronte al potere, nel denunciare ed essere “riconosciute” dalle autorità al governo del Paese? Quale visibilità le organizzazioni più combattive nel portare avanti la propria battaglia e nel tutelare le vittime? Non c’è da stupirsi che, nell’ultimo provvedimento di legge, il Parlamento abbia concesso solo alle ONG “ufficialmente riconosciute” la possibilità di denunciare i casi di schiavitù e di assistere le vittime di schiavitù.
In questa cornice “legale”, Biram e l’IRA sono una vera e propria spina nel fianco per il potere, e del tutto illegittimi ai suoi occhi. Nel processo del 20 agosto scorso, dunque, è stata confermata la condanna a Biram e Brahim, per le motivazioni politiche loro contestate, a due anni di carcere. Peraltro, il processo si è svolto in un contesto lontano dallo “stato di diritto”: agli “imputati” sono stati imposti dei difensori d’ufficio, scavalcando i difensori dei due, avendo Biram e Brahim confermato di non volere partecipare a una tale farsa e di non voler rispondere alle domande dei giudici; mentre dubbi sono stati sollevati anche sulla sede del processo, che non è basato né a Rosso, città natale di Biram, dove si sono svolti i fatti contestati, né a Nouakchott, capitale del Paese e sede dell’IRA, bensì ad Aleg, ove è presente un carcere di massima sicurezza, tristemente noto come la “Guantanamo d’Africa”.
Il che non deve indurre l’opinione democratica e la coscienza civica alla disperazione: come spesso gli esponenti del movimento ci hanno ripetuto, la lotta continua e deve diffondersi. Marce e presidi, mobilitazioni e sit-in, e ogni forma di pressione presso le autorità nazionali e internazionali, perché riconoscano il problema della schiavitù e prendano posizione ed assumano iniziative contro il potere che su questa pratica si fonda. L’ultimo appello internazionale, lanciato pochi giorni fa, ha sfiorato, in questo momento, il milione di sostenitori. Facciamo sentire, anche attraverso questo strumento, la nostra voce:
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