Secondo la Rete dei Giornalisti Indipendenti (BiaNet) in Turchia dal 20 luglio fino al 20 agosto sono morte 139 persone durante gli scontri tra le forze dell’ordine e le milizie del PKK.
Poco più di due anni fa, precisamente il 21 marzo del 2013, durante i festeggiamenti della festa di primavera Nevruz nella città di Amed è stata letta la lettera di Abdullah Ocalan, leader storico del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) in tre diverse lingue. Era l’invito per un cessate il fuoco unilaterale ai militanti del PKK, successivamente il 25 aprile dello stesso anno il PKK ha iniziato a ritirare oltre confine verso il Nord Iraq le sue milizie presenti in Turchia.
Da quel momento fino ad oggi ci sono stati svariati sviluppi, cambiamenti, vittorie e fallimenti per tutte le parti, per tutte le persone. Oggi assistiamo di nuovo agli scontri tra la polizia, l’esercito e le milizie del PKK in diverse città della Turchia. Non passa un giorno che perde la vita un/a giovane e non passa un giorno che fiumi di persone percorrono le strade portando le bare dei cari, amici, parenti, mariti, padri, sorelle, fratelli.
La Turchia è uscita dalle ultime elezioni con un risultato epocale. Il 7 giugno del 2015, due anni dopo la rivolta del Parco Gezi, era arrivata al capolinea l’esperienza di governo a partito unico del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP). Ormai c’erano due scelte; andare prima possibile alle elezioni anticipate oppure comporre un governo di coalizione. Durante la campagna elettorale la parola d’ordine dei candidati dell’AKP insieme al Presidente della Repubblica era chiara “il governo di coalizione porta instabilità economica e politica”. Tuttavia il risultato aveva cambiato le carte sul tavolo, soprattutto grazie al superamento dello sbarramento elettorale del 10% da parte del Partito Democratico dei Popoli (HDP) e con la crescita gigantesca del Partito del Movimento Nazionalista (MHP). La voce dei vertici dell’AKP insieme al Presidente della Repubblica ostentava la volontà di comporre un governo di coalizione. Ma con chi? Tutti i partiti avevano condotto una campagna elettorale anti-AKP esattamente come aveva fatto l’AKP contro tutti gli altri.
Mentre il Primo Ministro uscente Ahmet Davutoglu stava consultando i membri dell’AKP per disegnare una road map, il 20 luglio in località Suruç nella città di Urfa, nel giardino del Centro Culturale Arama durante la lettura di un comunicato stampa una persona infiltrata nel gruppo e si è fatta esplodere e così ha ucciso 32 giovani ed ha ferito più di 100 persone. Quei giovani con tanti altri si preparavano per attraversare il confine entrare in Rojava(nord Siria), particolarmente a Kobane, per dare una mano alla ricostruzione della città che per circa un anno ha assistito agli scontri tra le YPG-YPJ (le forze di difesa locali) e l’ISIS. Mentre tutti, compreso l’ex governo, erano convinti che fosse stato l’ISIS ad organizzare questa strage, da parte dell’organizzazione ancora oggi non è stata lanciata nessuna comunicazione di rivendicazione.
Il giorno dopo sono stati trovati morti a casa loro due poliziotti sempre nella città di Urfa in località Ceylanpinar. Secondo il sindaco di Ceylanpinar, Menderes Atilla, avrebbe potuto essere il PKK a commettere gli omicidi. Il 22 luglio in un comunicato stampa molto breve l’Agenzia di Notizie Firat diceva così: “Dal Centro Media delle Forze di Difesa del Popolo; Il 22 luglio come un’azione di vendetta una squadra di fedeli di Apo (Abdullah Ocalan) ha punito due poliziotti conosciuti con i loro legami con l’ISIS”.
E da quel momento che la Turchia ascolta in radio, legge su internet, vede negli edicolanti e guarda in televisione di nuovo le notizie inerenti ai morti. Bombardamenti, rapimenti, esplosioni, coprifuoco, obbligo di silenzio stampa.
Mentre il co-presidente dell’HDP, Selahattin Demirtas, invitava tutte le parti a deporre le armi immediatamente, il Primo Ministro uscente Ahmet Davutoglu, i membri dell’AKP ed il Presidente della Repubblica insieme al MHP pronunciavano le parole di vendetta e guerra. Devlet Bahceli, il presidente generale del Partito del Movimento Nazionalista(MHP), richiedeva il copri fuoco in alcune parti del Paese e l’avanzamento dell’esercito per fermare gli scontri. Ahmet Davutoglu dava degli eroi ai soldati morti e definiva la morte per la patria come un atto di grande sacrificio per un grande paese. Presidente della Repubblica invece durante il funerale di un altro soldato ucciso, accanto la bara del giovane, col microfono in mano pronunciava queste parole “Beata la sua famiglia, beati i suoi cari. Sappiate che i nostri soldati ed i nostri poliziotti hanno sepolto centinaia di terroristi finora. Continueremo con questa battaglia senza stancarci, fino all’ultimo giorno del mondo, tutti insieme. Dobbiamo essere uniti, sotto una bandiera unica e dentro una patria unica. Non permetteremo la divisione del nostro paese”. Durante una riunione pubblica il Ministro uscente dell’Energia e delle Risorse Naturali, Taner Yildiz, dichiarava il suo scopo principale della vita come quello di “essere un martire” per la sua religione, per il suo popolo e per la sua patria.
Nel mentre, il 13 agosto l’esito dell’ultimo incontro tra CHP e AKP risultava fallimentare per un governo di coalizione e visto che anche l’ultimo tentativo di Davutoglu con MHP non aveva prodotto frutti, si è iniziato a pronunciare il primo novembre come l’ipotetica data per le elezioni anticipate.
È in questo clima caotico e incerto, che per qualcuno diventa l’occasione per facili promesse elettorali, che si alza un grido forte e netto soprattutto durante i funerali: “Basta!”.
Nella città di Siirt muore il soldato semplice Recep Beycur, durante i funerali suo cugino parla così: “Il Presidente della Repubblica si senta orgoglioso di questo. Si uccidono i fratelli tra di loro. Spero che Allah maledica suo figlio. Scrivete tutto questo, voi giornalisti”.
A Kars viene ucciso un altro soldato, Nurettin Ozturk. Suo padre con calma parla così davanti alle telecamere: “Se hai 17 mila Lire non vai a fare il servizio militare. I figli dei ricchi non ci vanno. Noi non abbiamo soldi, non siamo stati in grado di affrontare questa spesa”.
Stavolta a parlare è una parente del soldato ucciso Hasim Dirik a Bingol: “Non sono morti i figli dei Presidenti, Consoli oppure parlamentari. Si vergognino della loro umanità. Vengono a questi funerali solo per fare la sfilata”.
Nella città di Bursa, durante i funerali del soldato Abdulhalik Haraz ucciso a Sirnak, alcune donne gridavano dicendo ai giornalisti “Dite a Tayyip di mandare suo figlio a fare il soldato!”.
Il 23 Agosto durante i funerali di un tenente Ali Alkan ucciso a Sirnak, suo fratello, ufficiale dell’esercito, con la sua divisa gridava davanti alle telecamere con il sostegno di centinaia di persone dicendo: “E’ facile dire che vogliono morire da martiri pur vivendo nei palazzi presidenziali ed andando in giro con 30 guardie. Questo ragazzo aveva soltanto 32 anni ed una vita da vivere. Qualcuno parlava della tregua fino ad ieri, come mai oggi si parla della guerra!?”. Nel mentre hanno distrutto la corona mandata da parte del Presidente della Repubblica dicendo “Devono mandare loro, i loro figli a fare la guerra”.
Mentre il Paese si frammenta con le proteste che crescono contro il disegno politico ed economico dell’AKP, al confine con la Siria da più di 20 giorni si attendono le salme di 21 giovani che hanno lottato contro l’ISIS sotto le bandiere delle YPG/YPJ a Rojava. La mamma, Muhteber Coban, di uno dei militanti morti descrive così la situazione: “Sto male, non voglio che stiano male anche gli altri. Che siano le mamme dei soldati o di altre persone. Erdogan deve rinunciare a questi atteggiamenti da nemico. Ci devono consegnare le salme dei nostri figli”.
Dopo l’uccisione di due poliziotti a Ceylanpinar il 22 luglio il co-presidente dell’HDP, Selahattin Demirtas, parlò così, forse anticipando la voce delle madri, padri, fratelli e sorelle delle persone che successivamente avrebbero perso la loro vita: “Condivido il dolore delle loro famiglie. Allah li benedica. Anche loro sono i figli di un popolo oppresso e sfruttato”.
In Turchia l’obiezione di coscienza non è riconosciuta come un diritto. Grazie agli ultimi cambiamenti legislativi pagando circa 6 mila Euro si potrebbe evitare di svolgere il servizio militare. Nonostante l’opportunità in Turchia nel 2014 hanno usufruito di questo diritto soltanto 200 mila persone. Secondo i dati del 2014 dell’Associazione degli Obiettori di Coscienza in Turchia ci sono circa 3 milioni di persone che in qualche maniera cercano di evitare di svolgere il servizio militare, inoltre circa 600 mila giovani sono latitanti.
Come diceva il padre di un soldato di 21 anni, Baris Aybek, ucciso a Sirnak l’11 agosto “Avrei voluto vivere in un paese come il nome di mio figlio (pace in Turco). Mi manca un paese del genere”.