La “Cumbre de los Pueblos”, l’incontro dei popoli dell’America Latina e del Continente Europeo, si è svolta a cavallo degli scorsi 10 e 11 giugno, affiancando, con un programma e una proposta alternative, lo svolgimento del vertice UE-CELAC, tra i capi di stato e di governo della Comunità degli Stati dell’America Latina e del Caribe e quelli dell’Unione Europea, ed animando, con una presenza di massa, colorata ed entusiasta, le strade e le piazze della “capitale d’Europa”, il centro delle funzioni politiche e amministrative dell’Unione Europea, la centrale dell’austerity e del neo-liberalismo in versione comunitaria, Bruxelles.
L’incontro dei popoli ha rappresentato una novità inedita, che ha fatto irruzione in maniera originale e sorprendente, tra i palazzi e i grattacieli della metropoli europea, chiamando a raccolta delegazioni provenienti in pratica da tutto il mondo, non solo ad esibire voci e colori di una presenza di massa e di una partecipazione diffusa intorno alle prospettive democratiche, di pace e cooperazione, di giustizia e solidarietà, che devono (dovrebbero) animare i rapporti tra i due “blocchi” continentali, ma soprattutto a riflettere e condividere pratiche ed esperienze della mobilitazione rivoluzionaria all’interno delle rispettive realtà nazionali, come ha dimostrato l’articolazione dei tavoli di lavoro.
Molti e impegnativi: l’integrazione dei popoli dell’America Latina (CELAC, UNASUR, ALBA); i trattati di libero scambio e i movimenti sociali; pace e sovranità: ingerenze e sanzioni; la protezione sociale; il cambiamento climatico: per costruire un movimento mondiale per una trasformazione di sistema; diritti umani e potere dei media. Accompagnati, peraltro, da alcuni relatori e facilitatori d’eccezione, come Fernando Buen Abad ed Abel Prieto, già ministro della cultura e presidente dell’unione degli scrittori di Cuba, Aleyda Guevara e Martin Almada, vittima e strenuo oppositore, al tempo stesso, della dittatura in Paraguay, Premio Nobel Alternativo per la Pace, nel 2002; Pedro Calzadilla e Carmen Bohorquez, deputata e docente universitaria, già viceministro della cultura.
Non è stato, tuttavia, solo un momento di coinvolgimento e di scambio, reciproco e solidario, tra i movimenti progressisti e rivoluzionari al di qua e al di là dell’Atlantico – ma verso la Sponda Sud, non verso il Nord, quello degli Stati Uniti e Canada, esclusi dalla CELAC, che, come giustamente è stato ricordato, rappresenta il primo consesso panamericano da cui gli USA sono, significativamente, esclusi – che, per la prima volta in forma istituzionale, grazie all’intuizione di Hugo Chavez, realizza il “sogno di Bolivar”, dell’unione dei popoli, dell’integrazione latino-americana e della “Patria Grande”; è stata anche un’occasione di battaglia nel “contingente”, per ribadire, alla opinione pubblica, alla grancassa mediatica mainstreaming e ai capi di stato europei, che l’America Latina è oggi all’avanguardia tra le esperienze mondiali di sperimentazione di un “altro” mondo possibile e di un “altro” modello di sviluppo; che Cuba continua a rappresentare una fonte di ispirazione inesauribile per il socialismo e la democrazia nella giustizia; che il Venezuela “non è una minaccia, ma una speranza”; che gli Stati Uniti devono ritirare il decreto con cui dichiarano, incredibilmente, il Venezuela una “minaccia alla sicurezza nazionale USA”, decreto foriero di nuove ingerenze e di ulteriori destabilizzazioni; e che sia arrestata la guerriglia criminale e il sabotaggio economico che le destre eversive venezuelane hanno messo in campo, sin dallo scorso anno, per provocare un golpe reazionario sul modello cileno.
Quando, nell’incontro conclusivo, tra i movimenti sociali (oltre quaranta Paesi presenti, oltre duemila partecipanti alla cumbre) e le delegazioni istituzionali dei Paesi CELAC, il presidente ecuadoriano, promotore della Rivoluzione “Ciudadana”, Rafael Correa, ha ricordato l’esempio storico e attuale di Cuba, l’ispirazione creatrice e rivoluzionaria di Hugo Chavez, l’ALBA dei popoli dell’America Latina come esperienza di pace e di autodeterminazione, denunciando le ingerenze degli Stati Uniti e la politica del doppio standard che ancora domina le relazioni tra il Nord e il Sud, uno degli applausi più fragorosi è risuonato nella prestigiosa Basilica di Koekelberg.
Confermato dal calore e dall’entusiasmo che hanno scandito i passaggi delle conclusioni, da parte del vicepresidente del Venezuela Bolivariano, Jorge Arreaza, 42 anni appena compiuti, una laurea in studi internazionali alla UCV, un master in studi politici europei a Cambridge e una esperienza di Ministro della Scienza nel governo bolivariano tra il 2011 e il 2013, che, nella sua oratoria, così simile talvolta a quella di Chavez, ha ribadito le peculiarità della transizione bolivariana al socialismo, l’originalità di quella esperienza dinamica, avanzata, inclusiva, che va sotto il nome di “socialismo del XXI secolo”, cui lo stesso Chavez ha saputo fornire grande impulso, l’impegno per la “pace con giustizia” e la cooperazione tra i popoli, di cui l’ALBA e la CELAC sono espressione.
Che dire, dunque, di ritorno da questo evento, che non è forse azzardato definire “storico”? Che è stato un esercizio di ascolto e di condivisione, delle nostre (europee) pratiche con le loro (latino-americane) innovazioni e conquiste, sul terreno politico e sociale, testimoniate dai progressi compiuti dai paesi progressisti latino-americani nel conseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite e nel recente premio che la FAO ha riconosciuto al Venezuela, per avere sostanzialmente azzerato la fame nel Paese, persino in anticipo rispetto alla tabella di marcia decisa dall’organizzazione internazionale.
Che è stata, di conseguenza, una lezione al nostro, presunto e tradizionale, “eurocentrismo”, collocando l’Europa dell’austerity e del neoliberalismo alla retroguardia del processo mondiale di emancipazione e di inclusione sociale, come dimostra, peraltro, anche la battaglia diplomatica in corso tra le istituzioni comunitarie e la Grecia di Syriza in merito al superamento dell’austerity e alla ristrutturazione del debito. Che è stata, soprattutto, una espressione, colorata e moltitudinaria, non solo dall’Italia (presente all’evento con la delegazione più numerosa tra quelle europee, oltre cento presenze), di entusiasmo e condivisione, prima ancora che di appoggio e solidarietà, espressione, in altri termini, di un desiderio di giustizia e di una attualità del socialismo che molti, troppi, si erano affrettati a dichiarare finito una volta per tutte.