Padroni di multinazionali e numerosi ministri si sono ritrovati a Parigi per il “Business & clima Summit”. Auto-celebrando le proprie azioni e presentandosi come gli attori principali nella lotta contro gli squilibri climatici, hanno con forza reclamato l’introduzione del prezzo della CO2.
Sin dall’entrata al Business & clima summit, il partenariato pubblico-privato occupa tutto lo spazio. Il 20 e 21 maggio, la sede di Parigi dell’Unesco è stata tenuta sotto controllo sicurezza dalla polizia nazionale, con in seconda linea una società di sicurezza privata. Una volta passati i punti di controllo, corridoi e sale riunioni risuonano di ricorrenti dichiarazioni sulla necessità di fissare il prezzo della CO2, o del carbonio come viene spesso erroneamente chiamata.
“Prezzo, prezzo, prezzo!”, martella il Segretario generale dell’OCSE (organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), Angel Gurria, rivolto ai padroni venuti qui per mostrare i loro impegni per il clima, in vista del COP 21. Una richiesta urgente ripresa da tutti i partecipanti, organizzazioni internazionali, coalizioni di affari e gli stessi CEO. Per evitare di trovarsi ignorati durante le trattative del COP21 a dicembre, questi big boss hanno giocato d’anticipo, si sono assunti il ruolo dei buoni chiedendo agli Stati di comportarsi bene e annunciando che loro stessi, nelle loro imprese, già sono d’esempio. Anche se sono i principali inquinatori del pianeta, massimi produttori di gas serra.
È un po’ il ballo degli ipocriti trasformato in grande show di generosi maghi. Una operazione a metà tra lobbying e lavoro d’immagine. “Le imprese sono pragmatiche, vogliono chiarezza, sapere se i governi fanno sul serio e hanno davvero intenzione di impegnarsi. Le imprese hanno il vantaggio di non essere bloccate dalle frontiere, la sfida è ovviamente globale, ben al di là dei confini. Quanto al prezzo del carbonio, è una condizione necessaria ma non sufficiente, che tuttavia le imprese vogliono integrare e fare in modo che non cambi ad ogni nuova maggioranza politica”, dice Brice Lalonde. Si trova lì né come ex militante ecologista (il tempo del PSU e degli Amici della Terra, è passato da tanto), né come ex ministro dell’ambiente (anche questo oramai lontano nel tempo), ma come consulente. Lui preferisce il termine di ”consigliere”, o “advisor” in inglese. Consiglia Global Compact, uno di quei raggruppamenti dei boss auto-proclamatisi virtuosi. Riconosce che la recente presa di coscienza unanime qui ostentata da questi grandi capi è legata all’emergenza di mercati, allo sviluppo della responsabilità sociale delle imprese e alla necessità di avere una buona immagine per attirare i giovani.
“Il greenwashing rappresenta il primo passo sulla strada giusta”.
Per quanto riguarda il rischio di greenwashing, appena accennato una volta sola e rapidamente spazzato via con una battuta, Brice Lalonde ha un’opinione che deve piacere ai suoi clienti: “Il greenwashing? È meglio di niente. È il primo passo sulla strada giusta…”
Durante la sua seconda apparizione, il segretario dell’OCSE riprende l’azione “prezzo prezzo prezzo!”, aggiungendo senza tanti giri di parole che bisogna “fare affari in un ambiente diverso”. Tutto un programma.
Da notare, nessuna traccia qui di clima-scetticismo. Nessuno mette in dubbio l’origine umana degli squilibri climatici. Bisogna solo trarne profitto, in senso proprio e in senso figurato.
Pascal Lamy è un “attivista”!
L’altro leit motiv della giornata è la frase di Pascal Lamy, l’ex direttore dell’OMC (Organizzazione mondiale del commercio, o WTO). Alla domanda se si sente ottimista o pessimista, risponde di essere “attivista”. Nel corso delle dichiarazioni, la battuta viene ripresa con gusto. Un bel ribaltamento di significato sulla bocca dei grandi capi. Se è necessario recuperare la minaccia climatica per farne una ‘”leva di crescita” e un inventore di mercati (come si inventa un tesoro), tanto vale, nel contempo, riprendere le espressioni dell’avversario, “zadisti” [militanti delle “zone da difendere”, numerosi in Francia], ambientalisti o militanti delle prime nazioni contrari ai fautori dell’estrattivismo in tutto il mondo.
I grandi capi appena diventati “attivisti” infilano uno dopo l’altro cliché sulla necessità di lavorare insieme e sullo “spirito di squadra”, ma tutto questo è limitato alle categorie “rispettabili”, le multinazionali, i loro consigli d’amministrazione, i loro azionisti e di fronte, ma in partenariato, i governi e i parlamentari detti “decisori”, quelli che fanno le leggi e i regolamenti. E questo è tutto per quanto riguarda la tavola rotonda.
Non sono stati invitati al dibattito né le ONG, né i movimenti sociali, né gli “zadisti” di tutte le cause, i popoli autoctoni che difendono le loro terre dal saccheggio, gli altermondialisti, i residenti arrabbiati o persino gli utenti in senso ampio. In questo campo, “business must go on”, anche se ci si rende conto che la formula “business as usual” non è più possibile e che bisogna adattarla alla nuova situazione.
Questa ammissione è considerata una enorme evoluzione. “Non si arriva da nessuna parte con lo scontro, anche tra azionisti e consigli d’amministrazione. Ci vuole collaborazione, orizzontale e verticale,”, insiste la costaricana Christina Figueres, segretario esecutivo della Convenzione delle Nazioni Unite sul clima.
I governi, le imprese, chi deve condurre la lotta contro il riscaldamento globale? La miscela di ministri, scandinavi o latino-americani, e di grandi capi si scambia cortesie. ”Per generare mercati più importanti, abbiamo bisogno del supporto dei governi’, ha detto Pierre-André de Chalendar, CEO di Saint-Gobain. Messaggio comune ripreso da molti altri oratori. Tutti hanno adottato gli stessi elementi di linguaggio.
Lo slogan di questo Business & clima summit dà la chiave di lettura dello spartito: ”Working together to build a better economy” (lavorare insieme per costruire una migliore economia). Un lavoro comune non per costruire un mondo migliore, più giusto o più equo, ma semplicemente per migliorare l’economia, con l’innovazione e gli investimenti, alla conquista di nuovi mercati.
Ségolène Royal, venuta a vantare i propri impegni sia a livello legislativo che per la promozione della crescita verde, che è il nuovo chiodo fisso del capitalismo d’opportunità, si trova qui in terra amica. Si permette una frecciatina al “settore finanziario predatore che per tanto tempo ha prelevato le risorse naturali senza pagare”, ma si riprende subito con una sintesi, più accettabbile in questo consesso, sulla transizione: ”Costa, ma rende di più”.
“A chi venderemo lo shampoo, se non c’è più acqua?”
Si sentiranno alcune risposte sorprendenti, come quella del padrone di Carrefour, Georges Plassat, che ad una domanda, pur benevola, su possibili ”sospetti di greenwashing” in questo novello impegno delle imprese per il clima, replica: “Non c’è nessun sospetto!” Punto. Senza che si possa capire se intende che c’è solo e esclusivamente greenwashing consapevole, intenzionale, o se l’idea di sospettarlo è davvero scioccante, fuori luogo e assolutamente fantasiosa.
Altro grido di dolore nel momento in cui vengono evocati gli effetti già presenti degli squilibri climatici, la perdita dell’accesso all’acqua, il fatto che alcuni brasiliani non possono fare la doccia tutti i giorni: “A chi venderemo lo shampoo?” si chiede, seriamente preoccupato, Jean-Paul Agon, il padrone di L’Oreal.
“Non viviamo nel mondo dei sogni”.
Patrick Pouyanné, nuovo CEO di Total, si assume la responsabilità di essere “uno dei più grandi inquinatori” di questo importante consesso. Rappresenta un poco il “bad boy” in mezzo ai teneri combattenti per il clima, attivisti ma sopratutto a caccia di buoni ritorni sui capitali investiti.
Pouyanné non si è presentato senza dichiarazioni. La misura fondamentale a dimostrazione della propria buona volontà? Promette di “interrompere la pratica del gas flaring (incendio dei gas residui) nei suoi giacimenti petroliferi da ora al 2030”. Per il resto, la sua dichiarazione non brilla per sofisticatezza: “Il mondo ha bisogno di più energia e le fonti rinnovabili non possono coprire tutto. Bisogna affrontare la realtà. Dobbiamo fornire energia a coloro che non vi hanno accesso. Ci sarà bisogno di tanta energia, per i trasporti, per le industrie chimiche e tante altre. Non viviamo nel mondo dei sogni. La nostra industria non può fare tattiche: ci vuole una visione a lungo termine, con un quadro incentivante e stabile, in particolare attraverso il prezzo della CO2. Non si può cambiare se non gradualmente. Parallelamente, Total investe nelle energie pulite: solare, biocarburanti. Certo, siamo parte del problema, ma siamo anche parte della soluzione”.
Hollande vuole inviare segnali al mercato
Arriva il Presidente della Repubblica. François Hollande rincara: “Ciò che sta accadendo a Parigi, è la trasformazione del mondo. Se non siamo in grado di raggiungere un accordo qui, a Parigi, il pianeta sarà un posto più difficile in cui vivere e le sfide industriali saranno sempre più difficili da affrontare. Se raggiungiamo un accordo, sarà una rivoluzione per i prossimi decenni. Convincere 196 paesi avrà del miracoloso. Mettersi d’accordo non è mai facile. A volte è difficile anche da soli… “ Sorrisi in sala.
Dovendo ogni paese rendere noti i propri “contributi nazionali”, il Presidente della Repubblica deplora il fatto che solo 37 paesi li abbiano pubblicati. Evoca inoltre anche il finanziamento di futuri impegni attraverso il Fondo verde internazionale. Manca molta gente all’appello. “Senza fondi, non ci sarà nessun accordo a Parigi”.
‘”C’è bisogno di inviare segnali ai mercati!“ esclama Hollande il liberale, altrettanto favorevole a quell’istituzione di un prezzo del carbonio che riempie i dibattiti in questa sede dell’Unesco. Questi “segnali ai mercati” i padroni li hanno richiesti durante questi due giorni, perché si prenda in considerazione un prezzo del carbonio, ammettendo che questo tema non è all’ordine del giorno del COP21 né sperano di riuscirci nel 2016. Tutti quindi chiedono e lanciano segnali.
Forse segnali di fumo. A meno che non si tratti di cortine di fumo, quando Philippe Varin, il nuovo CEO di Areva vanta la soluzione nucleare come la panacea zero emissioni. Anche lui si definisce “parte della soluzione”: “Il nucleare è complementare alle energie rinnovabili e l’esempio francese, con il 75% di nucleare, è un mix corretto, una buona soluzione. Certamente incontriamo dei problemi, ma questo è normale, non è raro incontrare problemi nello sviluppo di tecnologie, sta a noi superarli”. Aggiunge poi anche il suo peso al discorso sulla necessità di fissare il prezzo del carbonio, un prezzo ”robusto e prevedibile almeno per vent’anni”.
Il prezzo del carbonio? Questo deve essere l’unico messaggio martellato continuamente da questa assemblea di multinazionali.
Leggere anche: Merci Total, merci EDF, merci BNP, merci pour la pollution et pour la crise climatique
Traduzione dal francese di Giuseppina Vecchia per Pressenza