Promosaik, partner di Pressenza, ha intervistato in Germania uno dei redattori tedeschi dell’agenzia. Un’occasione per rinsaldare i legami e approfondire temi di interesse comune. E chiarire perché facciamo giornalismo.
Che cosa significano per te personalmente l’umanesimo e il Nuovo Umanesimo?
Per me l’umanesimo consiste in questi tre aspetti essenziali: l’essere umano come valore centrale, la nonviolenza e il principio che dice di trattare l’altro come si vorrebbe essere trattati. Soprattutto l’ultimo aspetto per me riassume lo stile di vita dell’Umanesimo Universalista. Personalmente sono semplicemente stanco della sofferenza in me e intorno a me. Mi rifiuto di accettare il mito secondo cui la sofferenza sarebbe parte integrante della vita e la violenza faccia parte dell’essere umano. L’obiettivo perseguito dall’umanesimo consiste nel superamento del dolore e della sofferenza. E a questo fine vanno superate violenza e discriminazione per ritrovare la giustizia sociale, non solo qui in Germania o in Europa, ma in tutto il mondo. Non vi sarà alcun progresso, se non sarà un progresso per tutti.
A differenza di altri umanesimi, il mondo interiore acquista, per l’Umanesimo Universalista, un’importanza centrale. Una trasformazione radicale dell’essere umano e della società infatti per forza di cose necessita una dimensione interiore. L’essere umano non è solo fatto di carne ed ossa, ma è soprattutto un essere spirituale. Il razionalismo, soprattutto in Occidente, ha prodotto grandi danni; dobbiamo farsi guidare dall’ispirazione, avere i piedi per terra, con la testa nel cielo.
Quali sono gli obiettivi principali che persegui con il tuo impegno nell’agenzia di stampa Pressenza?
Ci sono numerosissimi progetti pacifisti nel mondo. Ma Pressenza segue un nuovo approccio nel settore sociale dei media che ancora nessuno ha avuto il coraggio di fare. Tutti sanno intuitivamente che i media vivono delle diverse forme di violenza. Praticamente si nutrono di esse.
Quando avevo 5 anni, avevo convinto i miei genitori di poter andare a letto appena dopo i notiziari della sera. Ma il telegiornale lo trovavo noiosissimo e, visto che in quel periodo di sera facevano sempre vedere le immagine della guerra dell’Jom Kippur, ho chiesto a mio fratello maggiore quando sarebbe finalmente terminata quella guerra, perché pesavo che dopo non ci sarebbero stati altri telegiornali. Lui mi ha spiegato con pazienza che c’erano sempre delle guerre da una parte o dall’altra e che per questo i telegiornali ci saranno sempre. L’aneddoto ovviamente fa sorridere. Il ragazzino che crede che dopo la fine di una guerra finiranno anche i telegiornali noiosi e dunque potrà guardare finalmente i suoi film divertenti. Questo momento per me è stato determinante per il mio futuro impegno per la nonviolenza; in quel momento per la prima volta ho riflettuto sulla società e ho sentito che qualcosa non andava. Inoltre questo aneddoto autobiografico dimostra che ben presto nella testa di un bambino si crea la relazione tra guerra e media. Ora basta sostituire la parola guerra con il termine violenza e già ci troviamo nella quotidiana realtà dei media.
Sappiamo che i media non rappresentano la realtà, ma la creano. Gli sguardi dei giornalisti alla ricerca di violenza promuovono e producono la violenza.
Pressenza cerca esempi di risoluzione dei conflitti, di riconciliazione, di distensione e tutti gli elementi che creano unione, tutti i fattori che promuovono e raccontano la nonviolenza e la pace. Non si tratta di quello che scriviamo, ma di come lo scriviamo, e cioè mettendo uno sguardo nonviolento sul mondo. L’obiettivo principale perseguito da Pressenza consiste nel suo contributo al superamento della violenza.
Che importanza acquista il giornalismo oggi per la pace e i diritti umani, in un mondo dominato dal giornalismo freddo della guerra e del potere?
Stiamo vivendo un momento molto critico. Siamo di nuovo in presenza di un conflitto militare in Europa, quale risultato dell’aumento del potenziale di aggressione tra le potenze militari mondiali. Non vorrei parlare dei retroscena. In questa situazione i media rivestono un ruolo importante, divenendo uno strumento di propaganda, tramite il quale la popolazione viene preparata ed abituata ad un conflitto militare.
Molte giornaliste e molti giornalisti iniziano la loro professione in buona fede e poi si perdono nella linea redazionale della maggioranza dei media. Il risultato sono giornalisti pagati e frustrati che si fanno strumentalizzare, invece di scoprire, accusare i veri colpevoli e mostrare i diversi aspetti di un conflitto. Ai giornalisti si insegna che devono mantenere la distanza, anche nei confronti delle cose “buone”. Invece in momenti di crisi come questo i giornalisti devono uscire dalla loro “posizione di reporter” e prendere posizione per la pace e la nonviolenza. I giornalisti sono cittadini e non possono nascondersi dietro un tesserino da giornalista, mentre con le loro parole invocano una nuova guerra. In questo contesto, ad esempio, penso al coraggio di Gabriel Krone-Schmalz, ex corrispondente dell’ARD a Mosca, o di Ken Jebsen, ex moderatore dell’RBB che hanno compiuto questo passo nel nome della responsabilità.
Nella storia ci sono momenti in cui la società si trova in bilico tra progresso o regresso, pace o violenza, accettazione o rifiuto della vita. Il giornalismo e i media possono ingigantire una situazione e per questo il giornalismo riveste un ruolo essenziale per la pace e la nonviolenza.
Pressenza è una piccola agenzia di stampa, ma piano piano sta diventando un servizio di stampa riconosciuto con contenuti affidabili sui temi della pace, del disarmo e della nonviolenza. Pressenza persegue l’obiettivo di fornire ai media tradizionali articoli sulla pace per contribuire ad un diverso tipo di giornalismo. Inoltre sempre più persone cercano informazioni e punti di vista al di fuori dei mass-media manipolati. A queste persone Pressenza vuole offrire un giornalismo serio e pacifista. Ci occupiamo anche della formazione di nuovi attori dei media nel settore del giornalismo della pace e della nonviolenza.
In questo modo, a livello internazionale, promoviamo una sensibilità crescente che rifiuta la violenza e la discriminazione.
Che strategie vedi per diffondere questo giornalismo positivo per la pace e i diritti umani?
Non siamo i soli che si impegnano per una società nonviolenta. E il problema consiste proprio in questo: i media tradizionali ci trasmettono l’idea secondo cui il mondo sarebbe pieno di pazzi armati e le masse cariche di odio e di rifiuto. Giorno dopo giorno ci vengono presentate delle menzogne che ci mostrano un’immagine brutta ed alienata della realtà. Infatti ci sono tante persone che amano la pace, la tolleranza e la solidarietà. La grande maggioranza vorrebbe superare guerra e violenza. Esiste un gran numero di iniziative, gruppi, organizzazioni e individui singoli che si adoperano quotidianamente per vivere questi ideali. Interi movimenti come gli indignati in Spagna ad esempio.
Per poter correggere questa percezione errata della realtà, dobbiamo metterci in rete, creare connessioni, condividere, trasmettere e diffondere le informazioni. E soprattutto dobbiamo dialogare nella vita reale e nei social media per creare una dinamica e un flusso. Ormai il desiderio di pace non si può più ignorare. Per questo Pressenza è anche un progetto aperto, a cui possono partecipare e contribuire tutti.
Che cosa hai portato dall’Africa per la tua vita e per il tuo pensiero?
Rispondere completamente a questa domanda supera definitivamente i limiti di quest’intervista. Cosa mi ha impressionato di più, è comunque la concezione sudafricana dell’Ubuntu. Molti, sentendo questa parola, pensano al sistema operativo di Linux. Originariamente il termine deriva dalla lingua zulu e comprende un intero concetto filosofico. L’essere umano non è un individuo indipendente ma una parte inseparabile di una rete vivente. Ognuno di noi è collegato con tutti e fa parte del tutto. Se qualcuno agisce in modo violento e arreca danno a una o più persone, l’unità ne rimane danneggiata. E sono tutti a subirne le conseguenze. Vendicandosi dell’altro, non si risolve nulla. Infatti si raddoppia solo il danno arrecato al tutto. Si può solo riparare un danno, curandosi e riconciliandosi. Solo in questo modo si riesce a ricostruire il tutto. Sono rimasto molto colpito da questo pensiero che mi ha fatto capire l’insensatezza della nostra concezione dell’occhio per occhio.
Per questo non mi meraviglio affatto che il lavoro fantastico svolto dalla commissione della verità e della riconciliazione in Sudafrica durante il regime dell’apartheid e che per me rappresenta la strategia che ha ottenuto il massimo successo, non faccia parte delle culture ebraica, cristiana e islamica, ma della cultura africana dell’Ubuntu.
Come si inizia a costruire una cultura della pace e della tolleranza nell’ambiente intorno a noi?
Una cultura della nonviolenza inizia in ciascuno di coloro che non ne può più della sofferenza e della violenza. La sofferenza deriva sempre dalla violenza.
Si deve riconoscere la violenza in noi stessi, la violenza che abbiamo esercitato e quella che ancora esercitiamo e quella che abbiamo subito e ancora subiamo. In questo contesto non si tratta solo di violenza fisica, ma di tutte le forme di violenza (psicologica, sessuale, razzista, economica, religiosa, ecc.). Inoltre devo iniziare a capire in che modo la violenza è ancorata nella mia cultura. La cultura in cui sono cresciuto fa sempre parte di me, indipendentemente dal fatto se la accetto o meno. E la violenza fa parte di tutte le culture del mondo.
La decisione di non voler più soffrire e una riflessione sulla violenza sono i primi passi nella direzione giusta. In questo modo inizia tutto ciò che ci permette di riconciliarci con noi stessi e con gli altri. Intendo riconciliarsi e non perdonare. Da questa riconciliazione derivano poi le altre azioni nel mio ambiente personale e nella società.