di Marco Serraino
Accade che, mentre corriamo schizofrenicamente tra i tanti impegni e svaghi con cui riempiamo il nostro tempo, ci giunge la notizia di una nuova “tragedia” che ci fa fermare un momento, ci fa indignare un istante e ci permette di fare conversazione qualche giorno. Poco importa che si tratti di un barcone che affonda, di un attentato terroristico o di una catastrofe naturale; dopo esserci costernati per la “triste fatalità”, ci tiriamo su pensando che la “tragedia” non è toccata a noi e, da bravi, torniamo a rispondere diligentemente agli stimoli che il sistema ci invia. Probabilmente questo ci è accaduto anche alla notizia del barcone, con 950 persone a bordo, affondato nel canale di Sicilia nella notte tra sabato e domenica. In fondo è tranquillizzante sapere che al mondo c’è chi sta peggio di te.
Ma davvero la nostra vita può ridursi alla mera sopravvivenza? Davvero ci basta rimbalzare, come palline in un flipper, tra i valori che ci vengono propinati quotidianamente? Davvero è sufficiente allontanare da noi lo spettro della fine?
Al mondo siamo circa 7 miliardi e moriremo tutti, così è stato per quelli che ci hanno preceduto e così sarà per i posteri; così sarà per me che scrivo e così sarà per te che leggi. La morte, sia essa di una, di migliaia o di milioni di persone, non è una tragedia. La vera tragedia è la vita sprecata e priva di senso, passata in preda alla paura della morte.
Pur sapendo perfettamente che un giorno toccherà anche a noi, viviamo come se non dovessimo mai morire e compensiamo la paura accrescendo il nostro ego. Così, noi veniamo prima degli altri e se gli altri sono d’ostacolo li discriminiamo e li prevarichiamo e, col cuore gonfio d’odio, non esitiamo a esercitare violenza su di essi. In modo più o meno subdolo li reifichiamo in modo che, con sempre minore possibilità di scegliere per se stessi, diventino funzionali ai nostri obbiettivi, ecco come agisce la violenza. La stessa violenza che vestita di guerra, sfruttamento economico e falsi valori spinge milioni di persone ad abbandonare la propria terra e, spesso, la propria famiglia alla ricerca di una speranza a cui affidare il proprio futuro. Intanto noi ci sentiamo forti e vincenti ma in realtà il nostro essere è solo il frutto della nostra paura e, quindi, della nostra sofferenza.
Eccola la grande sfida della nostra vita: superare la sofferenza, superare la paura della morte! Tuttavia la sofferenza continuerà a direzionare i nostri atti finché essi non troveranno, in un senso più profondo, un nuovo vettore.
Quando ciò accadrà, nel profondo riconosceremo gli altri come compagni e non come ostacoli, immagineremo insieme un futuro più umano in cui tratteremo gli altri come vorremmo essere trattati e la solidarietà e la reciprocità costituiranno un nuovo paradigma sociale. Allora, 950 persone, 950 fratelli, che immaginano un futuro migliore e hanno il coraggio di rischiare la propria vita non saranno più una tragedia ma una nuova speranza per l’umanità.