7 gennaio a Parigi. 18 marzo a Tunisi. 2 aprile a Garissa.
Tre stragi. Stesso modo di ammazzare. Stesso modo di morire. Stesso movente terrorista.
Cambiano però le reazioni. L’assalto alla sede di Charlie Hebdo (12 morti) ha provocato imponenti manifestazioni in moltissime città europee. Anche l’assalto al museo Bardo (22 morti) ha avuto come risposta grandi manifestazioni di solidarietà con le vittime e di rivendicazione di libertà. L’assalto al campus universitario di Garissa (148 morti) scuote indignazione, ma non muove mobilitazioni.
Perchè?
Non lo so, ma il sospetto che dipenda dalla “qualità” delle vittime, è stato sollevato da autorevoli osservatori.
Era facile identificarsi con le vittime di Parigi, sentirsi come loro nel mirino dei terroristi e dunque reagire con forza. Lo slogan “Je suis Charlie” è diventato una voce unica contro il terrorismo, per la libertà di espressione: come europei ci si è sentiti sotto attacco, popolo e governanti hanno voluto dare una risposta immediata, spontanea, senza farsi intimidire, anzi, rilanciando con l’edizione straordinaria del settimanale satirico che ha venduto 8 milioni di copie.
Anche per l’attentato a Tunisi, dove sono morti tunisini ma anche europei, è stato facile identificarsi con le vittime: ognuno di noi poteva essere al loro posto, in un viaggio turistico, in un museo. In internet la proliferazione dell’hashtag “Je suis Bardo” è stata immediata. Il forum sociale mondiale ha giustamente mantenuto l’appuntamento a Tunisi trasformandolo per un giorno anche in una rete contro il terrorismo.
Ma per gli studenti kenyoti vittime del commando di Al-Shabaab non si sono riempite le piazze. Erano cristiani, e proprio perchè cristiani sono stati ammazzati; l’elemento identitario-culturale con la moltitudine europea era dunque presente. Ma erano anche neri. E forse questo li ha fatti sentire un po’ più diversi. Una tragedia che riguarda più l’Africa che l’Europa. Una strage lontana.
Anche il modo di trattare “l’immagine” dei tre attentati è stata diversa. Delle vittime di Parigi e Tunisi non abbiamo visto foto dei corpi insanguinati. Ha prevalso il giusto rispetto per i cadaveri e per il dolore dei familiari. Quei morti sono stati coperti da lenzuola bianche prima di essere fotografati. Invece i 150 corpi martoriati e insanguinati degli studenti di Garissa, scalzi, mezzi nudi, freddati durante la fuga, rimbalzano dalle pagine dei giornali alle pagine facebook di mezzo mondo. Senza pudore, senza riguardo, e quindi senza rispetto.
Non lo so se questo è razzismo, seppur inconsapevole, o ipocrisia, o se siamo ancora impreparati ad affrontare queste moderne piaghe bibliche, così come le generazioni europee precedenti erano impreparate ad affrontare la “soluzione finale” per gli ebrei. Ora che qualcuno pensa ad una “soluzione finale” per i cristiani d’Africa, e che sappiamo, è doveroso e necessario reagire, almeno come abbiamo fatto per i “nostri” morti. Je suis chrétien (et noir).